Si è detto che il mercato del lavoro era troppo rigido e bisognava renderlo flessibile per permettere ai giovani disoccupati di trovare un lavoro, si è detto che il diritto alla pensione degli anziani avrebbe impedito ai giovani di riceverne una nel futuro, si è detto che bisognava riconoscere il merito dei giovani laureati e per farlo era necessario ridurre le pretese della gran massa dei lavoratori che invece laureati non sono.
E dal momento che questa contrapposizione tra giovane precario laureato e lavoratore anziano assunto a tempo determinato è stata detta e ribadita talmente tante volte da così tanti ministri, opinionisti e industriali da poter essere assunta da molti come un dato di fatto, vale la pena di approfondire e di verificare come stiano davvero le cose.
Il primo dato su cui riflettere è che dal 2000 fino all’inizio della crisi, nonostante una crescita economica sempre più lenta, il numero degli occupati è aumentato. Per la precisione è aumentato il numero dei lavoratori dipendenti, di oltre due milioni, mentre quello dei lavoratori autonomi è rimasto quasi stabile[1]. E a scanso di equivoci va detto che questo aumento ha riguardato esclusivamente i dipendenti privati dal momento che quelli pubblici sono invece diminuiti[2].
Questa crescita dei lavoratori dipendenti è stata un peculiarità quasi tutta italiana. Tra il 2000 e il 2007 il numero degli occupati in Italia è cresciuto di circa il 20% contro il 15% di Francia e Gran Bretagna e il 4% della Germania[3].
Le ragioni di questa crescita occupazionale senza sviluppo si trovano in altri tre dati significativi: il primo è la media delle ore lavorate che in Italia nel 2000 erano circa 1.860 all’anno. Di gran lunga superiori a quelle della Germania (1.471) e della Francia (1.523), ma superiori anche a quelle di Gran Bretagna (1.700), del Giappone (1.821) e degli Usa (1.846)[4].
Il secondo è il costo del lavoro. Anche se il padronato si lamenta ogni giorno dell’eccessivo costo del lavoro in Italia, nei fatti però nel 2000 il salario medio al lordo dei contributi di un lavoratore dipendente italiano era di 27.800 euro, contro i 31.400 della Germania e i 32.200 della Francia[5].
E nel caso specifico del Nord-Est (che non a caso è divenuto il riferimento del modello di sviluppo italiano) il reddito da lavoro è inferiore del 3,1% rispetto alla media nazionale, mentre il numero delle assunzioni è perfettamente in linea con la curva nazionale.
Il terzo dato riguarda i nuovi investimenti che al netto dell’inflazione calano dai 105 miliardi di € 2010 del 1990 agli 83 del 2005[6].
In conclusione grazie al pacchetto Treu, alla legge Biagi, alla riforma Fornero, alla deregolamentazione del mercato del lavoro, il padronato italiano ha potuto risparmiare sugli investimenti, sul rinnovo dei mezzi di produzione, sulla ricerca potendo contare invece sullo sfruttamento di forza lavoro relativamente a buon mercato e costretta ad orari di lavoro maggiori anche del 25% rispetto agli altri paesi europei.
E ancora una volta il Veneto rappresenta il modello di questo ciclo produttivo, con il suo universo di piccole industrie con 10 dipendenti o poco più, dove vengono portati in campo piccoli capitali, ma un elevato monte ore di lavoro.
Ma in questo modo si è spostato progressivamente il ciclo produttivo verso lavorazioni ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale.
La prima conseguenza è il progressivo indebolimento del sistema produttivo italiano, perché il limite di questo modo di produzione ad alta intensità di lavoro è che per espandersi avrebbe bisogno di estendere il tempo di lavoro, ma le giornate sono di 24 ore e una volta introdotti turni di lavoro, sabati e domeniche lavorative, straordinari obbligatori, si arriva ad un momento in cui la produzione non può crescere ulteriormente. E anche l’importazione di forza lavoro a basso costo ha dei limiti, sociali e politici.
La seconda conseguenza è la diffusione tra i proprietari dei mezzi di produzione di quella che potremo chiamare la sindrome dello schiavista dell’Alabama: se ho a disposizione forza lavoro non qualificata e costretta a subire le mie decisioni in merito di orario di lavoro e retribuzione, magari utilizzando il permesso di soggiorno come ricatto, perché mai dovrei spendere per comprare macchinari migliori e più efficienti? Meglio tesaurizzare i profitti, oppure costruirsi ville e palazzi, comprare yacht, speculare in borsa
Ma se non c’è bisogno di rinnovare il macchinario non servono gli ingegneri che lo progettino e neppure i tecnici che lo facciano funzionare.
Così si spiega la scarsa e sempre più ridotta richiesta di personale qualificato, che rende sempre più inutile al sistema produttivo l’apporto formativo di università e scuole di specializzazione,
La fuga dei cervelli è figlia di questo sistema di cose, non è una novità causata della crisi economica, ma un effetto di questo sviluppo produttivo .
Allo stesso modo la riduzione degli investimenti alla ricerca non è effetto solamente del disavanzo nel bilancio dello Stato o della cattiva amministrazione della politica o ancora della dirigenza delle università, ma del fatto che per gli schiavisti dell’Alabama l’università di massa è solo una spesa inutile, anzi dannosa perché può insegnare a ragionare a una forza lavoro che si vorrebbe ridotta ad una condizione servile.
In conclusione la situazione è esattamente opposta a quella descritta dai governi, dagli economisti asserviti e dai loro opinionisti prezzolati.
Per evitare la fuga dei cervelli, per ridare slancio alla ricerca, occorre costringere i proprietari dei mezzi di produzione ad investire, e per farlo l’unica possibilità è aumentare i salari, ridurre l’orario di lavoro, ridurre l’età pensionabile, dare maggiori diritti ai lavoratori.
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