Lo stress di una Costituzione sotto l’attacco di una classe dirigente indifferente, ingorante o apertamente ostile ai suoi princìpi si vede da tante cose. Due sentenze di incostituzionalità in un solo giorno sono però quasi un record, che mostra con nettezza a che punto sia arrivata la tensione. Se poi, come ieri è accaduto, si aggiunge un terzo problema di assoluta rilevanza costituzionale come la sovranità del Parlamento sulle spese militari, ecco che il paese si trova fotografato ad un solo passo dall’abisso.
Sulla questione dell’agibilità sindacale anche per le organizzazioni che non abbiano firmato i contratti in essere si può vedere l’articolo qui.
La seconda sentenza riguarda invece le provincie, una struttura di democrazia locale, elettiva e prevista espressamente dalla Costituzione. Non si tratta di una istituzione intoccabile (col tempo, purtroppo, il loro numero è stato aumentato in modo abnorme e irresponsabile solo per moltiplicare i centri di spesa clientelare, senza alcuna esigenza territoriale particolare), ma ogni cambiamento dovrebbe avvenire secondo le regole previste dalla Costituzione stessa.
Invece una classe dirigente “pragmatica” in modo volgare ha pensato bene di procedere al taglio di alcune province senza curarsi affatto delle regole, anzi modificandone la natura. L’imputato specifico di questa sentenza è il governo Monti, quello che in modo altrettanto irrituale e a-costituzionale era stato voluto e insediato da Giorgio Napolitano e dalla Troika nel novembre del 2011 (leggi qui per ricordare).
La Consulta ha giudicato incostituzionale la riforma degli “enti di area vasta” varata in due passaggi successivi dal Governo Monti (e dalle forze politiche che lo sostenevano, le stesse che sorreggono il governo attuale), poi “congelata” fino a fine 2013. Il ricorso era stato presentato da otto regioni.
La Corte non è entrata ovviamente nel merito del “taglio” (che è sempre possibile e per molti casi necessario), ma semplicemente dello strumento: non si può utilizzare lo strumento del decreto legge per provvedere a un riordino di tipo ordinamentale delle amministrazioni provinciali. Il decreto legge, infatti, è per sua natura un «atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza». Quindi è «strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate nel presente giudizio».
Uno studente al primo anno di legge che affronti l’esame di diritto costituzionale verrebbe sicuramente bocciato se non avesse compreso la “gerarchia” che colloca norme e procedure costituzionali al di sopra della legislazione ordinaria e a maggior ragione al di sopra della “decretazione d’urgenza” di un qualsiasi governo.
Eppure né Monti, né l’intero Parlamento della passata legislatura, né il “custode della Costituzione” – Giorgio Napolitano, per disgrazia della democrazia italiana – si sono “accorti” che stavano avventurandosi su un terreno proibito. Possibile? Certo che no (non parliamo degli “onorevoli” beneficati dal “porcellum”, ma dei capi-bastone che decidono). Lo sapevano e hanno forzato la mano apposta.
Così come ha fatto ieri il Consiglio di Difesa, presieduto eccezionalmente da Napolitano proprio per avallare una decisione dal sapore un tantinello golpista: gli acquisti di armamenti (i contestatissimi F35, nel caso specifico) sono prerogativa del Consiglio stesso e non del Parlamento. C’è un volgarissimo tentativo di coprire la forzatura con una esibizione di rispetto pro forma del potere legislativo, cui viene riconosciuto soltanto un potere di “indirizzo”, ma non più quello “sovrano”. Fra l’altro reinterpretato e sminuito a “potere di veto”, come se un Parlamento pretendesse – in materia militare – di impicciarsi di affari altrui. Ovvero il Parlamento può dire la sua, ma poi è il Consiglio a decidere. Diventerà così anche nel caso delle “missioni militari all’estero”? Sarebbe davvero interessante porre il quesito alla Corte Costituzionale…
Nel dicembre 2011 – pochi giorni dopo il suo insediamento – il governo Monti, con l’articolo 23 del decreto “salva-Italia” trasformava le Province in organismi di secondo livello (eletti dai consigli comunali e privi di giunta) e riduceva a poca roba le loro funzioni. Una modifica radicale della loro natura “costituzionale”, da organo rappresentativo a struttura puramente gestionale, in senso tecnico, come un’azienda municipalizzata.
Nel luglio 2012 – con l’articolo 17 della spending review – disponeva poi la cancellazione di una cinquantina di enti sui 107 oggi esistenti: quelli con meno di 350mila abitanti e un territorio inferiore ai 2.500 chilometri quadrati (esclusi i capoluoghi di Regione). Cancellata la natura di “assemblea rappresentativa” (articolo 77 della Costituzione), insomma, le provincie diventavano “esuberi” trattabili come un dipendente o un ufficio locale qualsiasi.
Non vi sembra di trovare una forte sintonia culturale con il “modello Marchionne”?
La sentenza della Corte ha per ora invalidato anche – era una conseguenza inevitabile – tutta la parte del decreto riguardante l’istituzione delle città metropolitane. Tutto il trasferimento di competenze, personale, strutture viene così momentaneamente congelato perché nessuno degli atti amministratici e dei decreti applicativi hanno più fondamento: né democratico né giuridico.
Non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza (arriveranno entro 10 giorni). Ma quel che trapela da Palazzo Chigi non è una marcia indietro, ma una forzatura costituzionale più radicale. Ovvero la stesura di un disegno di legge costituzionale e la presentazione, in parallelo, di una legge ordinamentale.
Qui siamo. L’unica opposizione parlamentare è rappresentata dai “grillini”, carne tenera di fronte a problemi di queste dimensioni e di questa durezza. Hanno giustamente protestato – per esempio sulla questione degli F35 e del Consiglio di Difesa – ma sollevare il paese contro questa deriva oligarchica e autoritaria è compito al di là delle loro conoscenze.
Eppure diventa urgente. O non avremo più nemmeno un ordinamento somigliante a una “democrazia rappresentativa”. E quindi nessuna libertà effettiva, a partire da quella di opinione.
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