Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Corte di Cassazione ha messo nero su bianco nella motivazioni della sentenza quello che accadde nella caserma della polizia di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate Cassazione si spiega perchè sono sono stati condannati sette poliziotti, quattro sono stati assolti, altri sono andati in prescrizione.
Le “violenze private” commesse sui no-global nella caserma di Bolzaneto nei giorni successivi al G8 di Genova si concretizzarono anche “nella costrizione a inneggiare al fascismo” si legge nella sentenza con cui la Corte di Cassazione conferma la responsabilita’ di gran parte degli imputati – poliziotti, carabinieri, agenti e medici penitenziari – gia’ sancita dalla Corte d’appello di Genova. E’ un vero e proprio “catalogo degli orrori” quello ricostruito, pagina dopo pagina, dai giudici della Procura di Genova: “lesioni con gas urticante”, “percosse con calci, pugni schiaffi e colpi di manganello”, “minacce” di vario tipo: una “chiara visione” di quello che stava accadendo non poteva non emergere dall'”aspetto atterrito e sanguinante degli arrestati”, dal “modo in cui venivano apostrofati e trattati dai loro seviziatori”, dalle “urla di dolore delle vittime” e appunto, da “canti e suoni inneggianti al fascismo che provenivano ora dall’esterno della caserma, ora dal corridoio”.
Lo scenario descritto rivela al pubblico e alle istituzioni il lampante ricorso a quella che la sentenza però non riesce a chiamare con il suo nome: tortura.
Secondo la dizione ufficiale “La tortura è un metodo di coercizione fisica o psicologica talvolta inflitta con il fine di punire o di estorcere delle informazioni o delle confessioni; molte volte accompagnata dall’uso di strumenti particolari atti ad infliggere punizioni corporali”. Nel caso di Bolzaneto si è trattato del primo fine – punire i manifestanti. Ma sul secondo fine – estorcere informazioni – il ricorso alla tortura in Italia da parte della polizia non è un comportamento inaugurato nelle giornate di Genova o alla caserma Bolzaneto.
Il prossimo 15 ottobre, infatti, a Perugia si celebrerà un processo importante per scrivere o rimuovere pagine importanti sulla storia recente dell’uso della tortura in Italia. Lo scorso giugno, la Corte d’Appello di Perugia ha stabilito di avviare la revisione del processo a Enrico Triaca. La prima udienza si terrà appunto il 15 ottobre.
Enrico Triaca era un militante delle Brigate Rosse e gestiva una tipografia nella quale venivano stampati comunicati delle BR. Arrestato insieme ad altri membri della colonna romana delle Br, il 17 maggio 1978, denunciò di aver subito torture da parte delle forze di polizia attraverso la tenica del waterboarding. La procura della Repubblica di Roma non credette alla denuncia di Triaca, e lo denunciò d’ufficio per calunnia condannadolo a 1 anno e 4 mesi. Ma dal 2007 in poi una serie di rivelazioni alla stampa portarono alla luce l’esistenza di due squadrette di poliziotti guidati dal dott. Ciocia (conosciuto come il prof. De Tormentis) con il compito di estorcere informazioni ai fermati e agli arrestati attraverso la tortura. Ciò ha portato alla revisione del processo che ha condannato Enrico Triaca per calunnia e che si celebrerà il prossimo15 ottobre. L’imperizia autoritaria dell’allora procuratore di Roma, Achille Gallucci, invece di archiviare come in altri casi la denuncia di tortura, perseguì il denunciante Triaca per calunnia, lasciando dunque nero su bianco un procedimento penale che adesso può essere riaperto alla luce di nuove testimonianze. Altri casi non hanno avuto la stessa opportunità. Il caso di Cesare Di Lenardo (accusato del sequestro del generale statunitense Dozier) o di alcune donne militanti delle BR come Elisabetta Arcangeli (“La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe” testimonierà l’ex ufficiale dei Nocs Salvatore Genova), Emanuela Frascella, Paola Maturi e di molti altri casi documentati ma rimossi.
Parlare della tortura in Italia ed adoperarsi affinchè questa diventi un reato perseguibile quando utilizzata dagli apparati dello Stato – sia per punire che per estorcere informazioni – è sicuramente una sfida sul futuro democratico di questo paese. Ma è indubbiamente anche una sfida sulla ricostruzione del passato recente – quello che molti piuttosto unilateralmente liquidano come anni di piombo – un passato che ha conformato molto del presente e che chiama in causa le omissioni, i silenzi e le complicità di tanti personaggi politici e tanti garantisti ancora in circolazione. Bolzaneto ha elevato la questione a livello internazionale e istituzionale, ma una battaglia politica, storica e di verità sulla tortura in Italia purtroppo non è cominciata con gli orrori delle giornate di Genova 2001.
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