Cosa c’è dietro i ripetuti richiami alla “stabilità politica” pronunciati da Letta, Napolitano, Epifani e centinaia di altri interni alla “classe dirigente” italiana? C’è molto banalmente il richiamo a una realtà di governance su cui nessuno ha fin qui messo attenzione: l’”autonomia decisionale” dell’Italia, in materia di spesa pubblica, non esiste più. Di fatto, dunque, il governo nazionale non governa più le proprie attività fondamentali, sul terreno dell’economia. Certo, può mandare i carabinieri in Val Susa o i pompieri là dove serve. Ma il “monte spese” e le politiche fiscali (il come si reperiscono le risorse all’interno del paese) non dipendono più da palazzo Chigi o via XX Settembre.
«Se cade il Governo – ha ricordato Enrico Letta a quanti nel Pdl sono pronti a far cadere il governo per vendicare l’ormai imminente fuoriuscita di Berlusconi dal Senato e dalla vita politica – la Legge di Stabilità la sciverebbero a Bruxelles e la scriverebbero diversa da noi». Mentre per ora questa legge «la scriviamo noi e non viene scritta in Europa visto che siamo usciti dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo».
Da buon democristiano, Letta dice una cosa vera e una falsa nello stessa frase. È vero infatti che “la legge di stabilità” (l’ex “legge finanziaria”, che programma spese e entrate per l’anno prossimo) viene al momento scritta a Roma; ma anche se il suo governo resterà in piedi quella legge verrà soppesata e, nel caso, riscritta da capo a piedi da Bruxelles. Ha casa qui il “pilota automatico” benedetto da Mario Draghi un po’ di tempo fa.
È infatti entrato in vigore uno dei tanti trattati europei che limitano la sovranità nazionale e quuindi il margine di manovra dei singoli governi, e che il Parlamento italiano ha approvato senza alcuna discussione. Quindi senza capirne le conseguenze. Naturalmente, la popolazione tutta è stata tenuta all’oscuro di cosa comportava questo “trasferimento di sovranità”, nascondendo il contenuto reale sotto frasi di circostanza come “lo vuole l’Europa”, “ce lo chiede l’Europa” o addirittura “per fortuna ora l’Europa metterà ordine in casa nostra, visto che da soli non siamo in grado di farlo”.
Il “two pack” è uno dei tanti borborigmi che i “tecnici” mormorano di quando in quando, ma comporta per l’appunto la stesura della “legge di stabilità” entro il 15 ottobre, il suo invio alla Commissione europea per la valutazione ed eventualmente una seconda stesura “fortemente consigliata” entro il 30 novembre. Se non passa l’esame c’è una bocciatura istituzionale che si traduce immediatamente in declassamento agli occhi dei mercati finanziari (quindi spread e interessi sul debito alle stelle).
Il “two pack” si aggiunge ai precedenti trattati:
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– “semestre europeo” (che implica un’elaborazione “vigilata” del “documento di economia e finanza” da presentare entro la fine di giugno, in preparazione della “legge di stabilità”),
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– “six pack” (un pacchetto di sei regolamenti in materia economico-finanziaria, finalizzati a riformare la governance economica europea e introdurre una normativa più rigorosa in materia di politiche di bilancio); le misure mirano a rafforzare il Patto di stabilità e crescita, permettendo un controllo più rapido delle politiche fiscali e a inchiodare il sistema di governance nazionale con azioni preventive e azioni correttive, compresi meccanismi che sorvegliano e prevengono una crescita eccessiva dei debiti sovrani e del deficit negli Stati membri;
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– “Fiscal compact” (vincolerà il nostro Paese alla riduzione del debito pubblico per una cifra di 45-50 miliardi di euro l’anno per vent’anni, con variazioni possibili a seconda che si inneschi o meno la crescita economica; ma tagliando la spesa pubblica si comprime anche – e in misura maggiore – la crescita del Pil)
La differenza tra una legge di stabilità scritta a Roma e una a Bruxelles è questione di lana caprina, insomma, che riguarda semmai alcuni capitoli di spesa che possono favorire questo o quel gruppo sociale (e i partiti che li rappresentano), non i “saldi finali”. Ma, a ben guardare nei trattati, anche questo minimo margine di autonomia “nazionale” è posto sotto sorveglianza.
I tecnici della Troika (l’Unione Europea lavora in sinergia con la Bce e il Fondo Monetario Internazionale) pretendono che vengano rispettate anche alcuni criteri vincolanti “nel merito” sia della spesa che delle politiche fiscali (chi paga il conto, insomma). L’obiettivo del disavanzo pubblico (deficit) deve restare sotto il 3% e devono essere rispettati gli “avanzi primari strutturali” (al netto delle spese per gli interessi sul debito); “avanzi” programmati secondo i criteri del Fiscal Compact per impostare il rapporto debito/Pil (oltre il 132%, nel 2014) su una “traiettoria stabilmente in discesa”. E bisogna far questo privilegiando il “trasferimento del carico fiscale da lavoro e capitale a consumi, beni immobili e ambiente assicurando neutralità in termini di gettito”. E occorre attuare una “spending review a tutti i livelli amministrativi”. In pratica: sul fronte delle entrate statali, la tassazione deve scendere nei confronti dei “redditi” (da impresa e da lavoro, con qualche sgravio in busta paga), ma deve aumentare nei confronti dei consumi (Iva), della casa (Imu, Taser, ecc) e di altre voci rientranti sotto la definizione “ambiente”.
Sul fronte delle uscite, invece, non viene vista altra strada che il taglio furibondo. A partire ovviamente dai capitoli più ponderosi: pensioni, sanità, istruzione…
Stabilito questo, come si può capire, il margine per una politica “di centrosinistra” è pari allo zero virgola. È un dettaglio da ricordare a chi chiede un “voto utile” alle prossime elezioni. Detto altrimenti: non c’è spazio per alcuna “alternativa” all’interno di questa Unione Europea. Ergo, bisogna romperla. Siamo qui per questo…
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