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Due governi in uno: chi comanda e chi no

L’analisi concreta della situazione concreta, suggeriva qualcuno, spazza via molte chiacchiere e tutte le “narrazioni”. Ossia quel castello di fuffa costruito dagli spin doctor di regime per convincerci che quella cosa marrone sul piatto è davvero cioccolata.

Applicato l’”analisi concreta” alla composizione del governo Draghi ne vien fuori che si tratta di due governi in uno.

Il più importante è quello che deve gestire il Recovery Fund e soprattutto rispettare le “linee guida” della Commissione Europea, avviando quella ristrutturazione del modello produttivo e soprattutto del “modello sociale” lì indicato.

E’ il vero cuore del nuovo esecutivo, composto infatti di soli “tecnici” – tutti di altissimo livello – abituati a muoversi nelle giunture che legano l’evoluzione nazionale con le istituzioni (e le politiche) sovranazionali.

Basterebbe solo l’elenco per capirlo. Al ministero dell’economia (finanze, tesoro, bilancio riuniti in un solo dicastero) è stato chiamato Daniele Franco, fino a ieri direttore generale della Banca d’Italia, prima ancora ragioniere dello Stato abituato a mettere in discussione le “coperture finanziarie” di decisioni politiche “spot” (gli 80 euro di Renzi, per esempio), universalmente conosciuto come “uomo di Draghi”. Non perché sia un obbediente esecutore – sarebbe fargli torto – ma per l’assoluta identità di vedute.

Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, autentico “tuttofare” del premier, è diventato Roberto Garofoli, magistrato e giudice amministrativo, ex Capo di Gabinetto del Ministero dell’Economia e delle Finanze con Padoan e Tria, spesso in contrasto con diversi ministri (specie con Di Maio).

Titolare del nuovo ministero per la “transizione digitale” è Vittorio Colao, una lunghissima sfilza di incarichi come amministratore delegato (tra gli ultimi quello di Vodafone), inutilmente scomodato da Giuseppe Conte per la stesura di una “piano” che poi non ha visto alcuna realizzazione pratica.

Alle infrastrutture e trasporti arriva Enrico Giovannini, ec capo statistico dell’Ocse, poi presidente dell’Istat, ministro del lavoro con Enrico Letta, recentemente co-fondatore e portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, che sembrava inventata apposta per articolare in progetti una delle “linee guida” di quello che è poi diventato il recovery Fund.

Stesso discorso si potrebbe fare con Marta Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, al ministero della Giustizia (la “Grazia” è sparita da anni). Specie un più efficiente funzionamento della giustizia civile, infatti, viene indicato dall’Unione Europea come uno degli obbiettivi del Next Generation Ue. Il perché è esplicito: non tanto garantire ai cittadini che le sentenze arrivino in tempi umani (trattando di soldi e immobili, in genere, le sentenze civili spesso arrivano utili per gli eredi, oppure favoriscono ruberie da pirati attraverso le cause fallimentari), ma “dare certezza” alle imprese.

Anche scuola e università sono al centro della “ristrutturazione epocale” immaginata dalla Ue, per renderle allineate con le esigenze delle imprese. E dunque sono state chiamati due “tecnici” come Patrizio Bianchi e Cristina Messa.

Il primo – economista, professore universitario, rettore – è stato fino a ieri direttore scientifico dell’Ifab (Fondazione Internazionale Big Data e Intelligenza Artificiale per lo Sviluppo Umano).

La seconda è stata rettore dell’Università Milano-Bicocca, ha contribuito all’elaborazione del masterplane Human Technopole, è stata vice-presidente del Cnr.

Luciana Lamorgese, prefetto di carriera, resta al ministero dell’Interno.

Alla “transizione ecologica” – il cosiddetto “superministero” che Grillo assicurava essere stato il principale “successo” della sua chiacchierata con Draghi, tanto da entrare nel “quesito” per la consultazione online degli attivisti 5S – è stato chiamato Roberto Cingolani, un fisico che è emerso soprattutto come dirigente e inventore di istituzioni. Ex direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova, fino a ieri responsabile dell’innovazione tecnologica in Leonardo (ex Finmeccanica, la società pubblica specializzata in armamenti), oggi guidata da Alessandro Profumo, ma in precedenza in mano a “tipetti” come Gianni De Gennaro e Mauro Moretti.

Si è fatto conoscere in politica per le apparizioni alla Leopolda di Renzi, ai meeting di Comunione e Liberazione (una protagonista nascosta, in questo governo), gli incontri pubblici con Casaleggio…

Questo è il “governo vero”, l’insieme che deve gestire il Recovery Fund perché diventi davvero il vettore della ristrutturazione guidata dall’Unione Europea. Per capirlo basta sottolineare che, nello schema presentato da Draghi, scompare il ministero per i rapporti con la Ue. Quelli li garantisce direttamente lui con i suoi uomini, dunque non serve più uno “snodo nazionale” incaricato di mediare indicazioni sovranazionali e “resistenze” nazionali.

L’altro governo conta molto meno. E’ la parte che deve gestire le “conseguenze” della ristrutturazione, in parte, oltre a raccogliere le “bandierine di partito” che devono assicurare – soprattutto – che la maggioranza tenga per tutto l’anno, fino alle elezioni del prossimo presidente della Repubblica (che sarà sempre “Lui”).

Vista la situazione di crisi – durante e dopo la pandemia – si tratta di una lunga lista di “ministero delle rogne”, oltre a qualche cadeau per rispettare le proporzioni del manuale Cencelle 2021.

Lasciamo perdere gli Esteri e la Difesa, che restano ai “vecchi” ministri (Di Maio e Guerini) e, in un contesto di relazioni internazionali in cui questo Paese risulta tra i “subordinati”, sono due ministeri dalla storia prestigiosa, ma dalla funzionalità ridotta.

Il più importante degli altri è anche il più rognoso. Lo sviluppo economico andato al numero 2 della Lega, Giancarlo Giorgetti, dovrà nei prossimi mesi aprire migliaia di “tavoli di crisi”, vista la pletora di chiusure aziendali che si annuncia. E si capisce anche che proprio questo fosse il principale obbiettivo dei leghisti, preoccupati di “salvare il salvabile” per il loro principale pilastro sociale: la piccola e media impresa del Nord. Quel ruolo si può esercitare con molta discrezionalità, decidendo chi aiutare cercando nuovi socie o compratori (o almeno provarci) e chi lasciar andare al proprio destino (lavoratori compresi…).

Dunque avere quella bacchetta in mano può diventare il modo di conservare “le proprie radici”, anche se il rischio – non riuscire a salvare granché – è certamente una scommessa che può esser persa.

Stesso discorso per il “sinistro” Roberto Speranza, rimasto nella trincea della Salute, e condannato dunque a proseguire nel continuo braccio di ferro con “governatori” al di sotto di ogni possibile considerazione, ma che detengono le chiavi della cassaforte sanitaria, oltre ad essere in buona parte responsabili della strage da Covid.

Anche la scissione delle competenze per il turismo da quelle per la cultura (dove resta l’eterno Franceschini) segnala che c’è un settore di cui curare il “dimagrimento” drastico, tra fallimenti e licenziamenti, pur continuando ottusamente a premere per “riaprire tutto” nonostante la pandemia stia covando una “terza ondata”. E anche qui, non a caso, è stato piazzzato un leghista – Massimo Garavaglia – tra i più rapidi a passare dal “no euro” a “viva l’Europa”…

Gli altri ministeri, equamente divisi tra berlusconiani, piddini e grillini, contano in chiave “ristrutturazione” davvero poco. Forse giusto un po’ la “pubblica amministrazione”, nuovamente affidata a Renato Brunetta, pronta ad accogliere le decisione riorganizzative e tecnologiche che arriveranno dai “superministri” tecnici.

Il giudizio iniziale risulta dunque pienamente confermato. Ci sono due governi, uno di stampo, dimensione, prospettiva strategica e portafoglio “europei”; l’altro di ordinaria amministrazione, carico di problemi irrisolvibili ma utile per ora a dar lhttps://contropiano.org/news/politica-news/2021/02/13/due-governi-un-uno-chi-comanda-e-chi-no-0136330ustro a forze politiche in stato fallimentare.

Un secondo governo che deve fare da cuscinetto sociale al primo, che dovrà prendere le decisioni più pesanti.

Segnaliamo, per concludere, che meno di tre anni fa, in questa stessa legislatura, avevamo sperimentato tre governi in uno. Quello “europeo”, allora, era ai minimi termini e funzionava come piccola “garanzia” nei confronti delle istituzioni sovranazionali.

Adesso la situazione è totalmente rovesciata. Gli altri due governi (quello fascioleghista e quello grillino) sono stati maciullati e ridotti a “croce rossa per aziende decotte” oppure a intrattenimento temporaneo per un gruppo parlamentare che deve soltanto votare “sì” a qualsiasi cosa Draghi disponga.

Sic transit gloria mundi.

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