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La resa di Berlusconi

Settimane di terrore – nel controsinistra – passate in attesa del videomessaggio con cui Berlusconi avrebbe dovuto aprire la “guerra civile”. Anche la scelta dei tempi di messa in onda – alla stessa ora in cui la Giunta del Senato cominciava la discussione per bocciare la relazione dell’ex missino Augello – sembrava foriera di intenti bellicosi.

E invece niente. Sì, ha detto a un certo punto “italiani, ribellatevi con me”; ma iscrivendovi alla rinascente Forza Italia… Non proprio il massimo, come esercito guerriero.

L’interpretazione politica più precisa del discorso è venuta così dal Corriere della Sera: “non tocca il governo, se la prende solo con i magistrati”. E questo era in fondo l’unico problema “politico” che interessava l’establishment, Pd compreso e Napolitano in testa. Il resto è fumo, retorica per i propri elettori. Sia da parte berlusconiana che “democratica”.

Berlusconi accetta di uscire dal Parlamento, quindi si arrende agli esiti inevitabili di una condanna definitiva. Ma lo fa “alla Totò Riina”, minacciando di continuare a pesare sulla scena politica anche se sprovvisto personalmente di un ruolo istituzionale. Gli si può credere, su questo punto, perché in realtà le reazioni “indignate” al suo suo discorso – sempre lo stesso, da venti anni a questa parte – segnano anche la sua vittoria “culturale”. In fondo è riuscito perfettamente a distruggere l’idea stessa di “stato liberale di diritto”, minando alla radice quella “tripartizione di poteri” che costituisce il fondamento delle istituzioni statuali borghesi.

Risulta semmai stupefacente che nessuno dei suoi antagonisti ufficiali – i “democratici” a la Repubblica e il centrosinistra tutto – abbia mai sollevato obiezioni istituzionali al suo mantra anti-magistrati, limitandosi sempre a difendere in astratto “l’indipendenza della magistratura”. Il discorso sarebbe lungo e filosofico, ma proviamo a sintetizzarlo: nessun protagonista ufficiale della vita politica di un paese “democratico e liberale” può ridurre – nel discorso pubblico – la magistratura a un semplice “ordine di funzionari”, che dovrebbe funzionalmente essere subordinato ai poteri “eletti” dal popolo al pari della polizia o dei vigili urbani. Nessuno, in altri termini, può permettersi di indicare come “strumento dei propri avversari politici” quei magistrati che lo mettono sotto processo, mentre “gli altri magistrati” sarebbero “veramente neutrali”.

Sappiamo benissimo che alcuni giudici interpretano molto liberamente il codice penale, fino ad inventarsi fattispecie gravissime per “reati” bagatellari. Basta leggersi quanto andiamo scrivendo a proposito dell’azione della Procura di Torino contro il movimento No Tav. Ma, per l’appunto, la magistratura è uno dei tre poteri di uno Stato, con il compito specifico di occuparsi delle “violazioni della legge”, reprimendo sia chi si oppone alle decisioni dello Stato (“reati politici”), sia chi infrange leggi per fini personali (“reati comuni”).

E’ insomma perfettamente logico che un movimento di opposizione “di sistema” accusi “la magistratura” di essere un organo repressivo al servizio degli interessi difesi dallo Stato (quelli della borghesia o dei circoli di potere dominanti). Ma non può farlo – non dovrebbe farlo – chi, da “politico”, è del tutto interno alla logica di quel tipo di Stato. Nemmeno se fosse assolutamente certo che quel singolo magistrato che lo condanna sia davvero un “agente del proprio avversario”.

Se la magistratura infatti non è ritenuta “terza” (imparziale o neutra rispetto ai singoli interessi) da chi “comanda”, ben presto non lo sarebbe più nemmeno per chi dovrebbe solo “obbedire”, ovvero “il popolino” tutto. Nessuno insomma si sentirebbe più obbligato al rispetto di nessuna legge, e tantomeno di qualsiasi sentenza, riducendo la vita sociale al puro gioco dei rapporti di forza. Guerra civile totale, dunque, di tutti contro tutti; in cui l’unica ragione per non fare qualcosa (appropriarsi di beni o ricchezze altrui, di qualsiasi entità, ecc)  sarebbe rappresentata dalla pura forza del gruppo o del singolo con cui si entra in contrasto.

Ovvero la dissoluzione dello Stato.

In venti anni, nessun “liberale” ha chiaramente e pubblicamente contestato Berlusconi su questo punto; nè alcun magistrato ha raccolto le migliaia di prove (discorsi, videomessaggi, interviste) per contestargli la diffusione di una “cultura dell’illegalità” (dall’evasione fiscale a quella contributiva, quando per esempio invitava a cercarsi dei “lavoretti”) che, per un pluri-presidente del consiglio, è quasi equiparabile all'”alto tradimento”.

Se nessuno l’ha fatto, vuol dire che  in questo paese la “cultura democratico-liberale” non ha più rappresentanti politicamente e/o numericamente rilevanti. Questa è “la vittoria del berlusconismo”. Una indifferenza alle regole che ha conquistato anche i propri avversari (gli esempi sono innumerevoli, da Penati alla Lorenzetti, per non parlare del sottobosco MontePaschi e o delle holding multinazionali chiamate ancora “coop rosse” solo per indicarne l’origine).

E’ a questa Italia pre-capitalistica che Berlusconi si rivolge quando dice “continuerò a pesare anche fuori dal Parlamento”. Questo “delinquente” condannato in via definitiva, e che presto lo sarà probabilmente anche per altri e ancor più gravi reati, è perfettamente consapevole di rappresentare un blocco sociale di grandi dimensioni, incistato e cresciuto come un tumore nelle modalità precapitalistiche di accaparramento del reddito tipiche di questo paese. Ma soltanto di questo paese, nel consesso europeo-occidentale. E questo blocco sociale vuole essere “difeso”, ovvero non coinvolto più di tanto, dalle sforbiciate “rigorose” imposte dalla Troika alla spesa pubblica nazionale. E’ come se Berlusconi e tutto quel blocco sociale stessero gridando: “affamate lavoratori dipendenti, precari e pensionati, ma non noi; vi daremo una mano a farlo, sostenendo i governi che agiranno in questo senso, ma dateci qualche garanzia di tutela dei nostri consolidati interessi”.

E’ qui che probabilmente Berlusconi e chi lo segue ha fatto male i conti. Un prezzo, con il modello di società in costruzione, e di conseguenza con la dimensione dei tagli previsti dal Fiscal Compact (in vigore dal prossimo anno), dovranno pagarlo anche loro. E non piccolo. Per questo Berlusconi viene spinto fuori dal campo istituzionale: continueranno a “pesare” certo, ma molto meno di prima.

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