La battuta è facile facile, ma non è possibile trattenerla: il governo ha fatto un colpo alle Poste, stile rapina dei bei tempi andati, quando girava soltanto il contante e banche/uffici postali venivano assaltati un giorno sì e l’altro pure. Ma se la fa un governo si chiama in modo diverso: privatizzazione.
Il “colpo” è stato deciso pochi giorni fa, in un normale consiglio dei ministri prescelti dalle banche. Ovvero dai soggetti che, insieme alle assicurazioni, si papperannno quel 40% di azioni di Poste che verrà al più presto immesso sul mercato. Dovrebbe portare quattro miliardi nelle casse dello Stato, il che sembra una buona cosa (meno tagli alla spesa), ma naturalmente non è così.
I quattro miliardi sono una prima tranche (la metà) di quanto serve al governo per soddisfare le richieste di Bruxelles. Intanto perché oberato dai 54 miliardi annuali da pagare in “interessi sul debito pubblico” (le cedole semestrali o annuali da versare sui conti correnti degli obbligazionisti, in genere banche, assicurazioni, fondi comuni, ecc). Comprensibile dunque che questi ultimi soggetti abbiano brindato alla decisione di privatizzare la cassaforte che contiene i risparmi di decine di milioni di cittadini – soprattutto poveri e pensionati – e alimenta la Cassa Depositi e Prestiti, ormai riguardata come l’unico salvadanio scassinabile per fare investimenti. Soprattutto quelli a cazzo, come le “grandi opere”, specialmente quelle inutili e danose (Tav, Corridoio, ecc).
Soprattutto, però Poste è un pericoloso concorrente – pubblico – di banche e assicurazioni private. Il bilancio della società è particolarmente illuminante: ormai l’80% del fatturato di Poste non deriva più dalla distribuzione di lettere e pacchi (la mail e i social network hanno quasi cancellato le prime, la concorrenza di Dhl e simili ha ridotto fortemente i secondi), o dal pagamento delle bollette, ma proviene dall’attività di banca-assicurazione. Una trasformazione risalente ormai a una quindicina di anni fa, quando venne nominato amministratore delegato un certo Corrado Passera (uno dei più abili nella giostra delle poltrone nei consigli di amministrazione).
Se ne parla ovviamente sottovoce, ma Poste è la più importante società di assicurazione italiana nel “ramo Vita”. Non solo: gestisce ben 18 milioni di carte prepagate, un flusso di denaro favoloso su cui trattiene un “aggio” molto leggero (al contrario dei “privati”). Inoltre ha una rete di sportelli incredibile (circa 14.000), con servizi offerti a costi “sociali”, ovvero inferiori – a volte anche di molto – rispetto a quelli pratucati da banche e assicurazioni private.
I 4 miliardi attesi dalla privatizzazione sono dunque una goccia nel mare, in pratica un mese di interessi sul debito (anzi, qualcosa meno). Mentre la liquidità di Poste – e i profitti generati – sono linfa vitale per lo Stato italiano. Non appare insomma una cosa saggia vendere i pozzi o la rete idrica nel momento in cui hai bisogno di acqua.
Sui media mainstream vige l’obbligo del “disorientamento di massa”, e quindi tutti straparlano di “public company” (fu così che venne varata la privatizzazione e distruzione di Telecom Italia, dal governo Prodi ai “capitani” amici di D’Alema) o di assegnazione delle azioni ai dipendenti, a prezzi naturalmente scontati come fu fatto per Alitalia.
Cosa dite? Facciamo esempi di clamorosi fallimenti? Beh, ma non c’è stata una sola privatizzazione, in questo paese, che abbia prodotto un successo industriale. Tutte le aziende pubbliche “messe sul mercato” funzionavano bene o benino, ma una volta date in pasto ai topastri mannari – i nostri imprenditori nazionali non brillano per lungimiranza e spirito competitivo, arraffano quel che possono, spezzettano, rivendono e vanno ai Caraibi; come i Riva, insomma, o i Ligresti – non ne è rimasto granché…
Quindi: la privatizzazione di Poste è insensata dal punto di vista della riduzione del debito pubblico, e si configura come un regalo a banche e assiurazioni private. Intanto perché la privatizzazione, di certo, porterà a un aumento delle tariffe praticate da Poste; sia nella classica distribuzione che, soprattutto, nei “servizi finanziari” offerti. Di quanto cresceranno non è possibile ora dire. Ma di certo verrà eliminato un limite (verso il basso) che costringeva anche gli istituti privati a non eccedere con i costi. Insomma: se si elimina il concorrente che pratica i prezzi più bassi, quantomeno, gli altri possono aumentarli. È così che funzionano in Italia il “principio della concorrenza” e “i criteri di mercato”.
Che questo 40% sia poi soltanto l’avvio della privatizzazione completa, è un’ammissione profferita a mezza bocca dal ministro competente, Fabrizio Saccomanni “si parte con il 40% poi si vedrà”.
Prepariamoci dunque a vedere una grande impresa pubblica che fa profitti, offre occupazione ad alcune decine di migliaia di lavoratori e servizi poco costosi a tutta la cittadinanza, diventare in pochi anni un arcipelago di imprese “specializzate”, con poco personale (gli “esuberi” saranno messi a carico degli ammortizzatori sociali – sempre meno – finanziati direttamente dalla spesa pubblica) e costi “nella media del mercato” drogato. Dopo bisognerà cercare qualche cinese o emiro di Dubai perché ne acquisti i rimasugli…
Naturalmente i giornali mainstream – che soltanto “per caso” sono di proprietà di quanti correranno ad accaparrarsi le Poste – vi diranno che è un miracolo dell’”efficienza”, tutto il contrario di qul “baraccone burocratizzato” che custodisce i nostri risparmi e riesce persino a guadagnarci…
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