Il presidente statunitense e premio Nobel “per la pace”, Barak Obama è arrivato in Italia e tra le prime cose che ha detto è che è contrario alla riduzione delle spese militari nei paesi “alleati” nella Nato, perché, ha spiegato ieri, “dobbiamo pagare per avere una forza Nato credibile e deterrente”. Non sfugge in queste parole il messaggio tutto relativo al caso italiano, dove uno dei “fornitori” principali è la statunitense Lockheed Martin, produttrice degli F35. L’Italia aveva “ordinato” 90 cacciabombardieri per un costo previsto di 14,3 miliardi e sui quali sono state ventilate – ma solo ventilate – voci di una possibile riduzione della commessa. E’ evidente come l’ingerenza statunitense sugli affari europei – acutizzata dalla crisi con la Russia sull’Ucraina – sia destinata a crescere nei prossimi mesi.
Ma il tema delle spese militari e di una loro eventuale riduzione per far fronte ai vertiginosi debiti pubblici, come nel caso statunitense e italiano, da tempo si interseca con le scelte delle varie amministrazioni al di qua e al di là dell’Atlantico.
Nel 2011 le spese del Pentagono (comprese le due guerre in Afghanistan e in Iraq) avevano superato i 710 miliardi di dollari l’anno, il 67% in più (in termini reali) rispetto al 2001. Quelle statunitensi sono il 46% delle spese militari del mondo (seguita dalla Cina con il 7,3%). Ma le percentuali delle spese militari sul Pil non sempre spiegano quantitativamente il loro peso effettivo. Basti pensare al Giappone che spende ogni anno 61 miliardi di dollari per il budget della Difesa. Il piano avanzato dall’amministrazione Obama prevede che nel 2015 il budget del Pentagono scenda a 670 miliard all’annoi, nell’ipotesi (tutta da dimostrare) che le spese per l’impegno militare in Afghanistan e Iraq si riducano di circa 100 miliardi e non si aprano altri fronti di conflitto. Il progetto è quello di tagliare 500 miliardi di spese militari nei prossimi dieci anni. Il che significa rivedere la strategia militare statunitense che, fino a poco tempo fa, prevedeva di essere in grado di combattere due conflitti di rilievo contemporaneamente. Già nella discussione strategica di due anni fa questa visione era stata ridiscussa per essere rimodulata sugli scenari possibili. “Le forze armate americane saranno in grado di combattere e vincere un conflitto di grandi dimensioni, mentre in una seconda zona saranno in grado di limitare le ambizioni di un secondo avversario e condurre altre operazioni di minor entità in altre zone calde», aveva affermato Obama, volendo così rassicurare i generali che i tagli non metteranno a rischio la sicurezza nazionale e gli Usa rimarranno ancora la potenza militare numero uno al mondo.
Ma il ‘Washington Post, alcuni giorni fa, poneva un interrogativo sulla politica estera americana: “Obama ripenserà la sua strategia globale?”. L’autore dell’articolo Fred Hiatt, critica Barack Obama che “ha giudicato il mondo abbastanza sicuro da poter ridurre drasticamente le spese militari, e l’Europa e il Medio Oriente abbastanza sicuri da poter giustificare un pivot-to-Asia”. Invece, con il ridimensionamento degli Stati Uniti, “il mondo è diventato più pericoloso”.
Appare piuttosto evidente come i teatri di crisi aperti in Siria e Ucraina vedano gli ambiti più legati al complesso militare-industriale agire pesantemente per non far abbassare gli standard di spesa legati al militare, negli Stati Uniti come nell’Unione Europea.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
alfredo
Peccato che la sinistra si sia frazionata e ridotta ad andare solamente alla ricerca del voto. Diversamamente le piazze come un tempo lontano, si sarebbero dovute riempire per manidfestare contro il capo dell’impero del male e per la liberazione dei compagni cubani nelle carceri statunitensi con l’accusa di avere svolto un nobile ruolo di antiterrorismo tendente a smascherare attentati nell’isola caraibica.