In Italia se ne parla solo per stuzzicare contraddizioni in casa d’altri (i problemi interni ai Cinque Stelle), ma il tema della “precarietà dell’Unione Europea” è ormai sul tappeto. Le elezioni del 25 maggio – seppur inutili dal punto di vista parlamentare (visto che il “parlamento” di Strasburgo è privo di potere legislativo) – hanno messo in luce qualcosa di molto più articolato di un banale “fronte euroscettico”.
La campagna elettorale continentale aveva puntato tutto sul “pensiero unico”: o si accetta l’intangibilità dell’Unione Europea oppure ci si ritrova in compagnia di nazionalisti, fascisti, populisti e ciarpame vario. Un condanna preventiva che ha spaventato molti, soprattutto a sinistra, silenziando tanti e impedendo fin qui la maturazione “di massa” di una discussione sulla natura e gli scopi dell’Unione Europea, chiaramente orientata alla rottura/superamento di questa forma semi-statuale in chiave di classe e internazionalista. Il paradosso è che questa necessità sembra esser colta molto più facilmente (e in modo necessariamente semplificato) a livello della popolazione “spoliticizzata” che non tra compagni che pure avrebbero qualche strumento analitico più solido. Ma tant’è, per ora…
Il ventaglio di opzioni politiche “euroscettiche” consolidato dal voto chiarisce però che la rottura della Ue è un problema ormai all’ordine del giorno in tutto il Continente. Soprattutto, si articola su posizioni molto differenziate, al punto che non è utilizzabile neppure l’abusato cliché – tutto italiano – degli “opposti estremismi”; quello per cui sarebbero “contro l’Europa” soltanto fascisti e comunisti trinariciuti/nostalgici. Un cliché talmente ottuso da comprendere tra gli euroscettici anche Tsipras e dintorni, perché di schamtiismo si muore.
Vediamo in dettaglio queste diverse posizioni.
Sull’estremissima destra si collocano i nazionalisti fascisti puri, come l’ungherese Jobbik, i greci di Alba Dorata, il singolo eletto tedesco per l’Npd. Un fetore tale che preferiscono tenerse distaccati anche i “fascisti in via di ripulitura” del Front Nationale francese in versione Marine Lepen, che sta cercando fare asse comune con la Lega Nord di Salvini, il Pvv (Olanda), Rp e Vlaams Belang (entrami belgi, ma i secondi solo fiamminghi), i democratici svedesi, il Fpoe austriaco che apparteneva a Jorg Haider.
Intento analogo per gli “ultraconservatori” inglesi dell’Ukip – diventato il primo partito di Gran Bretagna – il cui leader Nigel Farage ha incontrato un tramortito Beppe Grillo che non può certo fare gruppo a sé a Strasburgo (per avere diritto a fare un gruppo e presentare interrogazioni bisogna avere almeno 25 deputati di almeno sette paesi diversi, altrimenti si finisce tra i “non iscritti”). Comunque finisca questo tentativo, tra i temi centrali nella spaccatura in atto nel M5S, rappresenta in ogni caso un’ulteriore variazione di toni politici sul tema “euroscettico”.
Ma non è finita. C’è anche una componente liberale e liberista dura e pura come Alternative fur Deutschland, formazione politica recente fondata da economisti e guidata dall’ex presidente della Confindustria tedesca, che con il suo quasi 7% è tra i protagonisti assoluti dell’erosione di voti centristi sottratti alla Cdu di Angela Merkel. E siamo a quattro.
C’è poi la sinistra comunista “antieuropea” dichiarata, limitata ai greci del Kke e al Partito comunista portoghese (stiamo parlando ovviamente soltanto di formazioni rappresentate nel Parlamento di Strasburgo). Senza peraltro dimenticare il Partito Socialista olandese (SP). Il “Partito del Pomodoro”, che ha sviluppato negli ultimi anni una forte critica sia all’architettura dell’Unione Europea che a quella dell’Unione Monetaria
Appena più in qua, ma già sul fronte “riformista”, si colloca il Gue di Syriza, Linke, Izquierda Unida, e Podemos (Spagna), Lista Tsipras per l’Italia e altre formazioni minori di altri paesi.
A difendere l’”europeismo storico” ci sono popolari, socialdemocratici e liberali, che fanno maggioranza in questo parlamento e soprattutto nei vertici intergovernativi che sono i veri centri decisionali (Bce a parte) dell’Unione Europea. Ma anche qui la parola d’ordine generale è “cambiare o morire”, senza più la sicumera classica di chi pensa che non ci possa essere via d’uscita a un meccanismo istituzionale architettato come un “pilota automatico”, tra trattati, direttive e sanzioni.
L’austerità non ha insomma più padri né madri. Neppure Angela Merkel, Wolfgang Scaheuble e Jens Weidmann possono presumere di continuare sulla strada seguita finora. Anche se faranno di tutto per “diminuire il danno” di un cambiamento di rotta, anche parziale.
E questa confusione che ci ha fatto scrivere subito “ora in Europa sono tutti riformisti”.
Ma qui vogliamo concentrarci sull’altro fronte, quello che mette in discussione – più o meno apertamente – la continuità dell’Unione Europea sul percorso di una maggiore integrazione politica. Non ci interessa affatto perderci nelle distinzioni sottili tra una posizione e l’altra: il dato comune è infatti che tutte sono sintomo di una pressione della realtà economico-sociale sulla struttura costruita per incanarla. Sintomo, vogliamo dire, di un meccanismo che non funziona e non riesce più a convogliare consenso; che scatena dunque reazioni.
Se così è – “grazie” anche una contemporanea pressione statunitense (Ucraina. Abkhazia, Libia, ecc) che mette in crisi le normali linee di rifornimento energetico dell’Europa – tutta la discussione sull’Unione Europea può cambiare tranquillamente di segno. Non c’è più alcuna necessità di restare ingabbiati nella semplificatoria e falsa alternativa tra “essere europeisti” oppure “allearsi coi fascisti”. L’Unione Europea non è l’Europa, ma una costruzione statuale (per via di trattati intergovernativi, ma con identica “cogenza normativa”) che può e deve essere messa in discussione come qualsiasi altra. Sovviene il vecchio slogan sessantottino “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”, rivolto contro il macchinoso marchingegno democristian-fascista italiano come contro ogni altro “stato borghese”. E naturalmente nessuno di quelli che lo gridava nelle piazze aveva alcuna nostalgia per il Granducato di Toscana, lo Stato Pontificio o il regno delle Due Sicile… E le rispettive monete.
La rottura dell’Unione Europea – per concludere – non è insomma un obiettivo imputabile a una “soggettività scriteriata” che non sa fare i conti con gli avanzamenti della storia, ma una eventualità connaturata a una costruzione con molte – troppe – contraddizioni interne e ben pochi “collanti” unitari di vasta portata. È una rottura che può avvenire “da destra”, con l’esplosione dei nazionalismi e delle conflittualità (anche armate) infraeuropee. Può avvenire “dal centro”, magari con lo sganciamento unilaterale del paese più forte (la Germania modello Afd) dalla moneta unica e dalle regole di Maastricht.
Sarebbe insomma davvero sorprendente – e vagamente suicida – non ragionare e progettare su una sua rottura “da sinistra”. Potremmo trovarci all’improvviso davanti ad eventi che non riusciremmo nemmeno ad analizzare seriamente, sballottati tra richiami ideologici “antrigui” ma univocamente orientati a far convergere tutte le paure in direzione del sostegno al potere.
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