Non è più un segreto, da tempo. La risposta alla crisi si traduce in privatizzazione progressiva, tendenzialmente totale, di tutti i servizi pubblici. Sia di quelli che possono dare immediatamente un profitto (di qui, in Italia, la spada puntata sulle “partecipate” in capo energetico e nel trasporto pubblico, oltre alla sanità), sia di quelli che contribuiscono anche indirettamente alla “qualità” del contesto in cui le aziende possono operare.
La scuola, dunque, per il governo Renzi, diventa un servizio alle imprese; la formazione che serve è quella che facilita la messa in produzione delle nuove generazioni, anche prima di aver finito il percorso scolastico. Dimenticatevi insomma l’istruzione finalizzata alla costruzione di personalità indipendenti, di cittadini consapevoli, di “sapere critico”. Quel che serve al capitale in crisi è il minimo di formazione lavorativa ad hoc, facilmente rinnovabile e sostituibile, accompagnata da un “apprendistato non retribuito” che diventa obbligatorio già durante gli anni di scuola. Per la formazione “alta” ci penseranno le università private, quelle dove la retta è così alta che vi potranno accedere solo i rampolli delle classi più elevate e quei piccoli geni che si metteranno in mostra già nei primi anni passati sui banchi (un po’ come avviene negli Usa per gli atleti potenzialmente di èlite, ammessi con borse di studio).
Basta leggere le proposte che il governo vuole tradurre in decreto e circolari attuative già entro gennaio. In cambio, per così dire, viene promessa la stabilizzazione dei circa 100.000 precari che tutti gli anni affollano i provveditorati in cerca di una cattedra. Naturalmente anche a questi viene proposto uno scambio negativo: assunti, sì, ma senza scatti di anzianità; quelli andranno conquistati con il “merito”, ovvero su decisione dei presidi-manager. Un modo per pagare comunque stipendi più bassi e soprattutto per disporre di un personale totalmente sottomesso (se non ti “relazioni positivamente” con il tuo preside ti puoi scordare gli avanzamenti stipendiali). Senza più alcuna regola contrattata collettivamente (ovvero con un contratto nazionale di lavoro).
Il tutto è condito e nascosto con le solite frasi a effetto (combattere il «morbo della supplentite», ecc), che provano a far passare per “modernizzazione” lo svuotamento dell’istruzione pubblica e il suo asservimento alle necessità spicciole – altamente variabili – delle imprese.
La chiave di volta è “l’organico funzionale” fissato per ogni scuola. Ovvero un certo numero di docenti in più, rispetto all’attuale, con cui coprire le supplenze, le aperture prolungate, ecc. Si parte perciò dal possibile assorbimento dei circa 40.000 supplenti annuali, cui si sommano quasi 20.000 insegnanti di sostegno e poco più di 10.000 “spezzonisti”, impegnati su più scuole con poche ore ciascuna.
Questa – che sarebbe la parte “positiva” della riforma renziana – è però anche la parte più a rischio. Si calcola che servirebbe più di un miliardo, e sembra anche poco. Ma non è detto che possa esser trovato nella piega della legge di stabilità. Anche tenendo conto del drastico abbattimento salariale, man mano che l’anzianità aumenta e la busta paga resta ferma.
Anche perché, tra le tante promesse, c’è quella di uno stanziamento di un miliardo e mezzo per l’edilizia scolastica (nuove costruzini, ma soprattutto ristrutturazioni).
Ma è sul piano della didattica (e quindi programmi, orari, modalità delle “lezioni”, ecc) che emerge il “nuovo volto” della scuola renziana. Ancora una volta mascherato da una presunta “consultazione online” di tutti gli interessati (compresi genitori e studenti). Bisogna sempre ricordare, infatti, che il principio guida di questo governo – così come dei precedenti, anche se in forme meno strafottenti – è “noi ascoltiamo tutti, ma poi decidiamo noi”. Quindi…
Scontato – e persino doveroso, vista l’arretratezza in materia – il rafforzamento dell’insegamento di inglese e informatica a partire già già dalla scuola primaria. A livello dei licei, contraddicendo orientamenti improvvisati annunciati in precedenza, un incremento delle ore di storia dell’arte nei licei (coerentemente con l’idea di fare del turismo il vero driver dell’economia nazionale).
Ma questi sono solo dettagli secondari. Il cuore del ridisegno è una relazione stretta tra scuola e lavoro, sancito anche dalla connessione tra il decreto sulla scuola e il jobs act. L’obiettivo di medio periodo è raddoppiare le ore di lezione da passare direttamente sul lavoro (naturalmente obbligatorio e gratuito), definito pudicamente “formazione in azienda”. I ragazzi delle superiori, insomma, saranno “apprendisti senza contratto”, pronti a passare in un attimo dai banch di scuola alle linee di produzione. Se ce ne saranno ancora, vista la velocità con cui si va verso la deindustrializzazione.
Inutile dire che i presidi saranno il perno centrale di questa ricostruzione “fabbrichista” della scuola. Manager con poca nulla atenzione per la didattica vera e propria, ma “facilitatori” dell’interconnessione dell’istituto con mondo della produzione esistente nel territorio circostante. Quindi promotori della massima flessibilità d’orario per i docenti e “reclutatori” di manopera minorenne per le imprese interessate a “istruire” giovani mettendoli gratuitamente al lavoro.
Per favorire l’ingresso dei privati in questo meccanismo sono ovviamente previsti degli “incentivi”, anche se ancora non specificati né quantificati.
Non per caso questo dispositivo è ferreo innanzitutto con gli studenti del secondo triennio degli istituti tecnici (che dovranno passare al lavoro almeno 200 ore invece delle 100 attuali), accompagnati da un potenziamento dei laboratori (e delle ore da passarvi) a scapito delle ore di lezione “frontale”.
Il dettaglio rivelatore? Tutte le scuole potranno “commercializzare i prodotti della didattica”, già in vigore fin qui soltanto negli istuti di agraria. Insomma: a scuola si “produrranno merci”, e queste merci potranno – dovranno, vista la mancanza di fondi – essere vendute sul mercato. Ma per carità, si tratta solo di una “sperimentazione”…
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