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Risanare i conti con la “tassa sul pane”

Ci sono “voci” e “indiscrezioni” che valgono più di una notizia certa. E ci sono smentite che sembrano delle mezze conferme, solo che non lo si può ammettere.

Partiamo dalla smentita del governo: “la tassa sul pane non è all’ordine del giorno né mai lo sarà”. L’ultima volta che se ne era parlato, in Italia, si chiamava “tassa sul macinato”ed era stata introdotta nel 1868 dal ministro Luigi Menabrea, nel governo guidato da Quintino Sella. Nonostante le rivolte popolari, represse nel sangue da un generale rimasto famoso per l’infamia assoluta più che per la presa di Porta Pia (Luigi Cadorna), fu abolita soltanto sedici anni dopo. Lo scopo della tassa? Risanare i conti, ovvio…

Insomma, un’idea così moderna e innovativa che il governo Renzi – i cui ministri sembrano prelevati direttamente scuole non di prima fascia e buttati in prima linea tramite un casting approssimativo – potrebbe legittimamente farsela venire in testa. In fondo, basta non aver mai studiato storia…

Il giornale che ha riportato la voce, attribuendola a una richiesta diretta dell’Unione Europea, è da sempre molto “governativo”: Il Messaggero. E soprattutto con buone fonti dentro i ministeri.

La “tassa sul pane” è in realtà una buona semplificazione di una pensata leggermente più complessa: l’aumento dell’Iva dal 4 al 10% sui generi di prima necessità. Più precisamente “Bruxelles ritiene determinante una revisione delle aliquote ridotte dell’Iva e delle agevolazioni fiscali dirette”.

La parola pane non compare nel breve messaggio della Ue, ma non appena si va a vedere quali merci sono tassate in modo ridotto l’elenci è da film dell’orrore: latte, burro, formaggi e latticini, farina, riso, pasta, pane, crackers, prodotti da forno, olio, quotidiani e periodici, case di abitazione non di lusso, apparecchi ortopedici, protesi dentarie, occhiali da vista, prestazioni socio-sanitarie ed educative (scuole, asili, ricoveri in istituti di cura), servizi di mensa collettiva in scuole, ospedali, caserme, distributori automatici di cibi e bevande nei luoghi pubblici, gas domestico (per i primi 480 mc/anno di consumo).

Un aumento diretto del 6%, interamente riversato nelle casse dello Stato, di sicuro farebbe migliorare di molto i conti pubblici (oltre 5 miliardi, secondo i primi calcoli). Altrettanto sicuramente sposterebbe di qualche passo la vita di milioni di famiglie verso il baratro.

Di più. Sarebbe inevitabile una riduzione altrettanto drastica dei consumi relativi a quei generi. Il che, dal punto di vista delle famiglie, significa mangiare meno o prodotti peggiori; dal punto di vista macroeconomico significa invece avvitamento ulteriore nella recessione (minori consumi=minore produzione) e, in ultima analisi, concreto rischio che le agognate “maggiori entrate” per il fisco non ci siano affatto.

Noi non crediamo alle smentite, ci sembra ovvio. Sappiamo bene – lo abbiamo visto in Grecia e Portogallo, a Cipro e in Irlanda – che la Troika intende continuare a gestire la crisi massacrando i livelli di vita delle popolazioni. Naturalmente, pensiamo che una misura del genere dovrebbe – e persino potrebbe – essere contrastata con una mobilitazione di dimensioni e durezza ormai dimenticate.

 

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