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Il primo obiettivo resta il “mercato del lavoro”

Se uno legge i discorsi di Renzi e degli altri ministri senza tener conto delle “indicazioni” che piovono quotidianamente da Bruxelles e dalla Troika non può arrivare a capire cosa c’è di sostanzioso sotto la nuvola di parole di cui il premier si ammanta.

Nel suo doppio discorso a Camera e Senato, ieri, Renzi ha parlato di molte cose, in termini quasi sempre ultimativi. Ma per un solo tema è stata indicata chiaramente la data e la forma in cui dovrà “obbligatoriamente” essere raggiunto l’obiettivo: la “riforma” del mercato del lavoro.

E’ questa, del resto, la prima e principale “riforma” che la Troika impone per ottenere, in cambio, un po’ di tempo in più (la famosa “flessibilità”) per raggiungere gli obiettivi di bilancio e i limiti di Maastricht. Uno scambio preciso: la testa e le vite di chi lavora per “rientrare” nel novero dei paesi affidabili. Il concetto di “affidabilità” (accountability) che circola nel mondo del capitale multinazionale si riduce alla capacità di “onorare i porpri debiti”, strizzando le rispettive popolazioni a partire dai “produttori” di profitto.

Abbiamo parlato decine di volte delle caratteristiche che dovrà avere questa “madre di tutte le riforme”, e sono decine i dettagli che vengono lasciati trapelare tra finti scontri nella maggioranza. L’obiettivo è uno solo: rendere i lavoratori individui senza difese davanti al potere dell’azienda. L’art. 18, per esempio, già abbondantemente svuotato di efficacia, è il simbolo di questo azzeramento del potere contrattuale. E’ una minaccia diretta ai delegati sindacali (in primo luogo o soltanto quelli “conflittuali”), a quanti provano ad organizzare la resistenza e la contrattazione collettiva sia del salario che delle condizioni di lavoro. Non c’entra nulla con la maggiore produttività (che si ottiene con investimenti fissi, con nuove tecnologie produttive), e neanche con “la maggiore efficenza”; meno ancora con la “possibilità di assumere” (solo un bugiardo matricolato può dire senza ridere che la maggiore occupazione si ottiene aumentando la possibilità di licenziare). E’ semplicemente il modo per dare un più nodoso bastone del comando all’impresa, togliendo al tempo stesso ogni “scudo” al singolo lavoratore.

Solo su questo punto Renzi ha promesso un decreto se il suo “jobs act” dovesse incontrare resistenze parlamentari. Su tutto il resto tratterà, come ha fatto finora, con oppositori interni (sempre meno) e alleati costretti a farsi notare per non scomparire (berlusconiani e alfaniani). Del resto, l’andamento dei lavori parlamentari è molto chiaro: su mercato del lavoro, demolizione della Costituzione, avventure militari (soldati italiani sono anche nell’Africa subsahariana, insieme a francesi e tedeschi), riassetto autoritario dello Stato, non ci sono contrasti tra le varie forze politiche (e l’opposizione Cinque Stelle non ha alcuno spessore, né nell’aula, tantomeno fuori, per assoluta assenza di riferimenti sociali precisi). Le uniche giornate storte Renzi le ha vissute intorno alle nomine eccellenti (Corte Costituzionale e Consiglio superiore della magistratura). Persino sulla svolta netta “contro le toghe” – un “garantismo” pelosissimo, argomentato con la necessità di difendere “aziende con migliaia di posti di lavoro”, mancava solo che citasse esplicitamente Mediaset – ha sentito sollevare qualche mugugno, ma nessun contrasto vero.

La struttura del mercato del lavoro, dunque, è il terreno principale di scontro sociale. Cui si aggiungono le promesse di tagli draconiani alla spesa sanitaria e pensionistica, con assessori che ormai già pontificano apertamente sull’inutilità di fare esami diagnostici “a una certa età”.

La serietà e l’esistenza o meno di una opposizione politica e sociale si deve dunque misurare con questo terreno. Abbiamo di fronte il potere più vasto, forte, concentrato che sia mai esistito nella storia. Un potere che elimina ogni giorno residui di istituzioni e controlli democratici a livello continentale, che si è incamminato sulla via che porta alla guerra e non tollera più neppure la risibile “contrattazione a perdere” dei sindacati storici (Cgil, Cisl e Uil). Non si tratta di fare appelli, ormai. Chi non capisce la gravità della situazione e fa finta di credere che soltanto il proprio ristretto ambito di “intervento sociale” sia “la vera opposizione”, e che a partire di lì un giorno eserciterà la sua “egemonia” sull’intero corpo sociale, è tutto meno che un “antagonista”.

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