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L’accusa: due secoli di carcere per i No Tav a processo

Il maxiprocesso per i disordini della Maddalena si sta avviando a conclusione.

Il cumulo delle condanne richieste è degno di un maxiprocesso: 190 anni, con pene che vanno dai sei mesi ai sei anni. Il sapore di farsa giudiziaria che si è respirato negli anni del maxiprocesso ai NoTav, udienza dopo udienza, testimonianza dopo testimonianza, è stato spazzato via dalla gravità e dalla pesantezza delle richieste dei pubblici ministeri. Non che qualcuno si fosse convinto che nell’aula bunker di Torino si scherzasse, anzi, ma nessuno poteva ignorare la sproporzione delle forze in gioco, l’accanimento sistematico, ragionato, calcolato di una procura contro un intero movimento, rappresentato nel maxiprocesso dai 53 imputati per quella che ormai è passata alla storia del movimento come “la battaglia della Maddalena”.

Uno dei principi intorno al quale il processo si è incardinato nel corso di questi anni è stato l’intento – sempre dichiarato, quasi in ogni udienza – da parte degli inquirenti di non entrare nel merito della protesta, ma di limitarsi a valutare e giudicare i reati commessi. Un processo tecnico, in punta di codice, sarebbe dovuto essere. Ma questa linea di condotta ieri è saltata clamorosamente, quando i pm Quaglino e Pedrotta durante le requisitorie hanno addirittura suggerito ai NoTav come avrebbero dovuto lottare: dandosi fuoco come Jan Palach in piazza San Venceslao o facendo lo sciopero della fame come Marco Pannella. In aula si sono levate prima grasse risate e poi urla di sdegno e contestazione, al punto che il giudice ha deciso di sgombrare l’aula, lasciando dentro solo i giornalisti.

Benché i giudici abbiano sempre affermato il contrario, le richieste di condanna denotano la vera natura di questa lunga istruttoria: un processo politico, un processo alle idee. Calata la maschera, gli attori in campo si sono mostrati per quello che sono. Da un lato una magistratura votata alla disarticolazione del movimento di resistenza più grande e complesso oggi presente in Italia, e per questo temibile; dall’altro il movimento stesso che più che alla lotta, rischia di dover dedicare tempo, risorse ed energie a difendersi da quello che ormai è diventato il nemico principale, ovvero gli apparati dello stato.

Lo stesso stato che sostiene l’opera simbolo di tutti gli sprechi e i malaffari legati alle grandi opere, quella linea ad alta velocità che serve solo a chi la promuove, e che porta progresso e ricchezza solo nelle teste e nelle tasche di chi l’ha concepita, che offre comodo riparo a corrotti, corruttori e criminali di ogni estrazione e grado. Lo stesso stato che fa quadrato intorno alla polizia e alla magistratura, alimentando campagne di demonizzazione del movimento, attraverso rappresentazioni disoneste e non veritiere dei principi che lo alimentano da ormai venticinque anni, sproloquiando di “terrorismo”, “antagonismo anarchico”, “professionismo della violenza”. Lo stesso stato che ha intuito la dimensione non solo locale del movimento NoTav, temendone la portata dilagante, contagiosa, inarrestabile, come dimostrano le decine di movimenti del “NO” sparsi in tutta Italia. Lo stesso stato che teme i principi alla base del movimento, ormai talmente perfezionati da aver creato nuove forme di lotta non violenta – ma determinata – così efficaci e fastidiose, che l’unica risposta possibile in mancanza di validi argomenti tecnici e politici, resta l’accanimento giudiziario e poliziesco.
E infatti, alla fine del lungo corso di udienze, il risultato è che le uniche testimonianze attendibili, gli unici documenti validi, le uniche voci inappellabili provengono principalmente dalle forze dell’ordine, in particolare dalla Digos. Non dimentichiamo che è soprattutto sul mare magnum di voci, verbali e lamentazioni varie del personale in divisa in servizio permanente in val Clarea, nonché presente alla Maddalena tra il 26 giugno e il 3 luglio 2011, che l’intero processo si è basato, arrivando alle pesanti richieste di condanna formulate ieri.

Uno schema vecchio e consolidato quella della fiducia incondizionata nella parola delle forze dell’ordine, visto talmente tante di quelle volte, soprattutto nei processi di malapolizia, che non si può che assistere con animo contrito al suo ripetersi, constatando che è così che funziona e continuerà a funzionare nelle aule giudiziarie, in barba a qualsiasi garanzia costituzionale, all’imparzialità e al diritto elementare ad avere un processo equo. È quanto afferma anche il nutrito gruppo di difensori dei NoTav imputati: “la requisitoria dei pm è stata di basso profilo, molto assertiva e si è basata ampiamente sulle annotazioni della Digos. Prove quasi inesistenti, nessun riconoscimento dei presenti sul luogo degli scontri: se i funzionari digos in sede testimoniale affermavano che un manifestante fosse lì presente e commetteva determinati reati, ciò basta come prova regina, senza confutazioni né contraddittorio. Segnaliamo anche le ripetute critiche alle tante personalità istituzionali, amministratori locali e sindaci dichiaratamente NoTav che presero parte ai giorni della Maddalena”.

La storia giudiziaria del movimento appare già scritta. Per questo motivo appaiono assai condivisibili le posizioni radicali dei quattro militanti incredibilmente accusati di terrorismo ancora rinchiusi in regime di carcere duro, i quali dopo aver rilasciato dichiarazioni spontanee in aula, si sono sottratti al riesame dell’accusa. Resta da vedere invece come si evolverà un altro importante processo, quello a carico di Marta Camposano, molestata sessualmente e insultata da alcuni poliziotti in seguito al suo arresto.

Per quanto riguarda il maxiprocesso di Torino le richieste di condanna a sei anni sono a carico di sette NoTav, formulate in base alla recidiva. Le altre richieste partono dai tre anni per resistenza ai tre anni e dieci mesi per resistenza aggravata, senza recidiva, per alcuni con le attenuanti generiche. A partire dalla prossima udienza, prevista per martedì 28 ottobre prossimo, sfileranno in aula le parti civili per le richieste di risarcimento: la Lyon Turin Ferroviaire, la società italo-francese concessionaria dei lavori per il tunnel in Clarea, i ministeri e ben ottanta poliziotti.

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