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Salvini a Bologna. I potenti senza polizia sono nulla

E’ interessante lo sviluppo della “polemica”, con tanto di accuse poi ritirate e spiegazioni irritate, tra il boss della Lega Nord, Matteo Salvini, e i funzionari di polizia.

La ricostruzione puntuale fatta dai giornali padronali oggi riguarda soltanto questo aspetto, mentre sulle “denunce” ai compagni e relative identificazioni della Digos tutti danno per scontato l’avvio di indagini (sei denunce, per il momento). Nessuno, nei palazzi e nelle redazioni che “contanto”, sembra rendersi conto dell’intento omicida di Salvini e il suo “equipaggio” quando la Volvo blu investe i quattro-cinque ragazzi che si erano messi – a mani nude – davanti al cofano anteriore.

Ciò nonostante, dicevamo, la ricostruzione è interessante. Spiega Fiorenza Sarzanini sul Corrire della Sera, facendo un po’ il portavoce della Questura:

Esisteva un dispositivo di sicurezza per proteggere Matteo Salvini, ma il segretario della Lega avrebbe preferito evitarlo. Sabato mattina non avrebbe avvisato la questura di Milano della partenza e quella di Bologna del suo arrivo, come invece si era impegnato a fare. E questo nonostante le norme prevedano che la «personalità» sotto tutela sia sempre obbligata a comunicare costantemente i propri spostamenti, i mezzi utilizzati e soprattutto i luoghi di sosta e di soggiorno.

Insomma: che vuoi Matteo, te ne vai in giro per conto tuo e pretendi che ti stiamo dietro come una badante? I particolari sono però uno spaccato di come funziona la “protezione” dei potenti:

i funzionari dell’ufficio scorte di Milano confermano ai colleghi di Bologna la scelta di Salvini di visitare il campo nomadi la mattina dell’8 novembre. La Digos prende accordi con la consigliera leghista Lucia Bergonzoni – incaricata di organizzare la trasferta – per avere comunicazione di tutti gli spostamenti. In particolare si stabilisce che prima di arrivare al casello autostradale avviseranno il capo della polizia di prevenzione per attivare la «staffetta» di auto, in modo che la vettura del segretario abbia la scorta fino a destinazione. Si decide anche di predisporre un presidio fisso in servizio di ordine pubblico in via Erbosa, di fronte all’ingresso dell’accampamento rom.

Vengono impiegati 80 uomini, la maggior parte a protezione dell’entrata secondaria che, questo aveva detto Bergonzoni, sarebbe stata utilizzata per l’accesso.

Un autentico piano di battaglia, quasi si dovessero affrontare truppe nemiche debordanti per numero e determinazione, anziché qualche decina di giovani antifascisti e antirazzisti (i due termini vanno a coincidere, molto spesso). La dovizia di dettagli rivela quanto sia irritata la polizia col leghista:

Alle 11,50, non ricevendo alcuna notizia, il capo della Digos di Bologna invia un sms a Bergonzoni per sapere a che punto del viaggio siano. Scopre così che non solo non c’è stato alcun avviso al momento di entrare in città, ma che Salvini è già nel piazzale dell’Hippobingo, dunque a poco più di un chilometro dall’ingresso del campo. Lo dice lei stessa al telefono al capo della Digos e spiega che il segretario del Carroccio sta parlando con i giornalisti. È un inaspettato cambio di programma anche perché la stampa era stata inizialmente convocata di fronte al campo rom e invece a cronisti e telecamere è stato chiesto di spostarsi.

In tutta questa storia emerge con chiarezza un meccanismo e un’assenza. Il meccanismo è banale, talmente banale da superare millenari sospetti. I “politici” di livello fanno una qualsiasi inziativa solo per essere ripresi dai giornalisti; e la polizia viene usata come “servizio personale” perché queste iniziative raggiungano lo scopo.

L’assenza è anch’essa rivelatrice: questi “boss della comunicazione politica” sono soli come cani, non hanno uno straccio di apporto militante (a Bologna, perlomeno), e possono andare in giro solo con i militari al seguito. Truppe e troupe, insomma, altrimenti chi se li fila…

La prova finale? Quell’auto che cerca di investire dei ragazzi non ha sollevato l’indignazione di nessun giornalista di regime. Solo se sei un palestinese in Israele, e fai la stessa cosa, quegli stessi giornalisti si indigneranno – tutti insieme, per essere sicuri di non sbagliare – e ti definiranno “terrorista”.

E oggi, quell’intelligentone di Salvini, vorrebbe riprovarci. Fossimo nei panni dei poliziotti (si fa fatica, ammettiamolo…), lo lasceremmo solo apposta, stavolta.

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