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Caso Moro. Altri quattro passi nel delirio

E’ difficile combattere con i fantasmi. Più sono antichi, più si allontana il tempo dei fatti, più emergono dai bassifondi grandi e piccoli profittatori, gente che cerca fama e gloria con poca fatica. Più si confondono le acque in nome della “verità”.

Il “caso Moro” è da decenni sulla breccia come esempio di scuola, su questo versante. La nostra opinione l’abbiamo scritta cento volte: fu catturato, processato e infine ucciso dalle Brigate Rosse. Atti processuali, interviste, libri, e soprattutto secoli di galera scontati dai protagonisti, hanno consegnato – a chi non ha i paraocchi oppure ci vuole guadagnare qualcosa – una ricostruzione completa di quanto avvenne dal lato dei brigatisti. Se c’è ancora qualcosa da scoprire, insomma, è dal lato dello Stato, dell’azione dei dirigenti democristiani, socialisti e piccisti; sugli accordi tra Cossiga e Pecchioli; sui rapporti tra la Dc e gli Usa; tra i servizi italiani e statunitensi, su chi, solo in quel caso, come ci dimostrano i fatti più recenti, rifiutò ogni trattativa.

La “gestione” di quel sequestro, insomma, è il risultato di uno scontro tra campi decisamente opposti e senza “punti di contatto”, in cui – come in ogni battaglia – ognuno gioca per sé. Per vincere sul nemico.

La “confessione” di Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e superconsulente del governo italiano ai tempi del sequestro, consegnata alle stampe e non ai magistrati, poteva essere l’occasione per fare un po’ di chiarezza sui comportamenti del potenti d’allora. Ma a quanto pare si preferisce ancora “buttarla in caciara”, evocando un numero di fantasmi ancora superiore ai tanti che già circondano una vicenda tutto sommato chiara.

ll pg di Roma Luigi Ciampoli, che ha condotto le indagini dopo le “rivelazioni” di Pieczenik e di tale Enrico Rossi, ritiene che sussistano “gravi indizi circa un suo concorso nell’omicidio” dello statista democristiano. Tutto sta a capire cosa si debba intendere per “concorso”, concetto giuridico molto utilizzato dalla magistratura italiana e ferocemente contestato dalle magistrature di tutta Europa, per esempio. Una cosa è infatti “concorrere” insieme ai brigatisti, un’altra è “concorrere” insieme a Cossiga e Pecchioli. Il risultato – la morte di Moro – non cambia, ma le responsabilità politiche (e penali) sì. E decisamente.

Pieczenick, nella sua “confessione”, rivela di esser stato lui a decidere e imporre al governo italiano la “politica della fermezza”, ovvero il rifiuto di aprire una “trattativa” con le Brigate Rosse. A questa scelta “concorse” (è il caso di dirlo) con molto entusiamo il Pci d’allora. E Pieczenik spiega con molta chiarezza e altrettanto cinismo che “la fermezza” del governo equivaleva a dire ai brigatisti “a noi di Moro non ce ne importa nulla, l’importante è far fuori voi”. Si accettava insomma consapevolmente il rischio che l’assenza di trattativa avrebbe significato la morte del dirigente prigioniero. Spietato, ma comprensibile in una logica di guerra. Chi voleva evitare la morte di Moro non doveva far altro che “aprire una trattativa”, magari tirando molto sul prezzo o facendo finta di non farlo.

Le responsabilità di Pieczenik vengono messe in luce dal procuratore generale Ciampoli all’interno della nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta sulle presunte “rivelazioni” dell’ex ispettore di polizia Enrico Rossi; un tale che aveva ipotizzato la presenza di agenti dei Servizi, a bordo di una moto Honda, in via Fani, a Roma, quando Moro fu rapito dalle Brigate Rosse. L'”Honda del mistero” non è tale da anni, per i magistrati italiani, perché il guidatore è stato identificato, indagato, interrogato e infine prosciolto da ogni accusa perché – banalmente – quella mattina era semplicemente uscito dal garage dove lavorava e aveva finito il turno di notte. Per sua sfortuna in via Fani.

Riepilogando: l’indagine innescata dalle dichiarazioni di Enrico Rossi viene archiviata perché erano delle bufale (sarebbe curioso conoscere la ragione per cui erano state inventate, ma non ci viene mai detto). Ma girando tra carte e testimonianze è stata rinvenuta materia “interessante” per ipotizzare altre indagini ancora, per esempio a carico di quel col. Camillo Gugliemi, già in servizio al Sismi, che sarebbe stato presente in via Fani la mattina del 16 marzo 1978. Purtroppo è nel frattempo morto, e quindi non ci sarà alcuna indagine giudiziaria, solo molti articoli “dietrologici” sui giornali interessati a spremere qualche copia in più. C’è crisi nella carta stampata, signora mia, ma il caso Moro si vende sempre…

Pieczenik è invece vivo e quindi il pg ha chiesto al procuratore della Repubblica di Roma “perché proceda nei confronti di Steve Pieczenik in ordine al reato di concorso nell’omicidio di Aldo Moro, commesso in Roma il 9 maggio 1978”. La procura generale di Roma sottolinea che “sono emersi indizi gravi circa un suo concorso nell’omicidio, fatto apparire, per atti concludenti, integranti ipotesi di istigazione, lo sbocco necessario e ineludibile, per le BR, dell’operazione militare attuata in via Fani, il 16 marzo 1978, ovvero, comunque, di rafforzamento del proposito criminoso, se già maturato dalle stesse BR”. 

La prosa giudiziaria ci è nota, ma stavolta c’è qualche contorsione in eccesso. Provate a leggerla varie volte: può voler dire qualsiasi cosa, ed anche il suo contrario. “Comunque”.

Il problema – per la ricerca della verità giudiziaria, quindi anche storica – è che il pg Ciampoli non si è limitato a “parlare attraverso gli atti” (la massima che viene indicata come doverosa per ogni magistrato), ma è andato oltre. Nel corso dell’audizione condotta ieri davanti all’ennesima Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, ha riferito: “Bisogna prendere atto che in via Fani, con la moto, non c’erano solo le Br. Questi hanno successivamente sminuito queste presenze non conosciute all’epoca. Oggi sappiamo che su quel palcoscenico c’erano, oltre alle Br, agenti dei servizi segreti stranieri, interessati a destabilizzare l’Italia”.

Da 36 anni sentiamo queste affermazioni, se ci è consentito, alquanto generiche. E attendiamo – con non molta fiducia – almeno un nome. Uno. Non dovrebbe essere impossibile, in fondo. I “servizi segreti” evocati sono infatti – fuori di retorica – quelli statunitensi. Alleati, insomma (o superiori in grado). Gente che declassifica i segreti dopo un certo numero di anni, che ammette torture, omicidi mirati, anche di capi di stato stranieri; e che non avrebbe granché da perdere nel rivelare – proprio come ha fatto Pieczenik – cosa fecero allora.

Infine, su tutto questo aleggia una legittima domanda: in questo paese i vari governi si sono spesso sentiti autorizzati a trattare con la mafia, se occorreva evitare danni peggiori, ma trattare con le Br per cercare di salvare Moro, proprio no… Vi sembra normale?

 

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