Cossiga si starà rivoltando nella tomba. Per molto meno, a suo tempo, il “picconatore” rischiò la procedura di impeachment… E dire che non andò mai oltre generiche dichiarazioni (“esternazioni”) sulla necessità di rivedere – a cavallo della caduta del Muro e nei prodromi di Tangentopoli – gli assetti istituzionali ereditati a una fase non solo precedente, ma strategicamente opposta (dal “mondo diviso in due” al mondo unipolare).
Giorgio Napolitano, invece, ha annientato i residui di funzione “terza” della Presidenza della Repubblica (poco più che “il custode della Costituzione”) intervenendo politicamente su ogni aspetto della vita quotidiana di governo e Parlamento. La sua esternazione di ieri segna forse l’oltrepassamento dell’ultimo confine.
In un solo discorso è riuscito a “dare la linea” su tutte le questioni aperte, alla vigilia della chiusra del semestre europeo e dunque anche delle sue possibili dimissioni (ma non giureremmo su questa eventualità, se a metà gennaio non sarà stato trovato un equilibrio che rassicuri la “continuità” e la “stabilità” della governance sull’Italia).
Mettiamo in fila le questioni.
a) «In Ue ci siamo presentati con le carte in regola per il rispetto dei vincoli. A ciò deve corrispondere, in primo luogo in Parlamento, la massima serietà e saper passare sempre più da parole a fatti per procedere con coerenza e senza battute di arresto sulle riforme». Per questo, «non si dica che c’è precipitazione, che si procede troppo in fretta: si è fermato indugiando per mesi su questioni di riforma in qualche caso individuate da decenni».
Che un presidente conforti il governo in carica è assolutamente fisiologico e strano sarebbe semmai l’opposto. Ma qui c’è qualcosa di diverso: l’affermazione di merito che le “riforme” messe in campo dall’esecutivo siano proprio quelle giuste. Talmente giuste da essere indiscutibili e da approvare nei più rapidi tempi possibili. Di fatto, una delegittimazione di qualsiasi opposizione parlamentare possa avanza obiezioni o emendamenti “invaidanti” la struttura istituzionale che si cerca di imporre al paese. Delle opposizioni non parlamentari, naturalmente, non ce se ne preoccupa, né le si mette nel calcolo.
Una nostra forzatura polemica? Niente affatto. Nero su bianco Napolitano afferma: «Chi dissente dalle riforme istituzionali non deve farlo con spregiudicate tattiche emendative». Meglio se tace borbottando tra sé…
b) Anche l’abolizone di fatto del Senato viene benedetta con entusiasmo: «il superamento del bicameralismo non è tic da rottamatori», ma una misura che affronta «qualcosa di attuale e concreto in merito all’agibilità del processo legislativo. Lo schema dell’iter legislativo attuale è alquanto semplice: il governo presenta decreti e pone la “fiducia” su ognuno di essi. Quando ha bisogno di fare annunci mediatici, senza alcuna intenzione di fare sul serio, propone dei “disegni di legge” che abbandona agli istinti primordiali delle Camere (com’è accaduto per la “guerra alla corruzione” all’indomani dell’esplosione di Mafia Capitale).
Naturalmente nessuno può affermare che questa sia una procedura democratica “normale”, visto che istituzionalizza prassi “emergenziali” adottate in casi pressoché estremi. Ma basta premere l’enfasi retorica sull'”agibilità del processo legislativo” per rovesciare di segno sia il problema che la soluzione: meno istitituzioni mettono bocca sulle leggi, più rapidamente si decide. Anche la Corte Costituzionale è con ciò avvisata..
c) Neanche la vita politica interna ai partiti è più libera di svolgersi nella sua pienezza. Ogni differenziazione di opinioni e/o interessi rappresentati è catalogata tra i “rischi per la stabilità”. “Non possiamo essere ancora il Paese attraversato da discussione ipotetiche, se e quando e come si voglia e si possa puntare su elezioni anticipate” e se soffino “venti di scissione in questa o quella formazione politica, magari nello stesso partito di maggioranza relativa”. I Civati e gli altri malpancisti del Pd sono insomma avvertiti: rassegnatevi, mugugnate, ma non disturbate il manovratore…
d) Per uno vissuto ai piani alti del Pci non dovrebbe essere complicato capire che il jobs act – la demolizione del giuslavorismo di impronta democratica imposto con l'”autunno caldo” – è un cambiamento radicale e catastrofico nel pilastro fondamentale della “costituzione materiale” di questo paese, ovvero delle relazioni tra imprese e lavoratori. E’ quindi con piena consapevolezza che pronuncia frasi come questa: la riforma del lavoro “è un risultato molto importante”, anche se “il 2014 non si chiude bene dal punto di vista dell’andamento generale dell’economia”. Ma “il quadro potrà dare segni di inversione di tendenza solo nel 2015 e 2016 solo se non verrà dall’Italia nessun affievolimento della linea su cui governo e Parlamento hanno mostrato di voler convergere”.
Sorvoliamo sulla contestazione delle competenze economiche, qui ridotte alla semplice attesa messianica per una “inversione di tendenza” che non si manifesta da quasi sette anni e che – parole presidenziali – non si manifesterà probabilmente neanche l’anno prossimo, forse quello successivo… Si tratta anche qui di un totale sostegno al governo e un’altrettanto totale delegittimazione di ogni opposizione possibile.
e) Tant’è vero che si rivolge alla Cgil, per senza nominarla, per ricordare – in un contesto addirittura opposto – l’antico mantra dell'”interesse generale del paese” (in realtà delle imprese e del capitale multinazionale, se si deve dar credito alle entusiaste dichiarazioni dei maggiorenti di Confindustria) come necessariamente prevalente su quello dei lavoratori. “Ci deve preoccupare un clima sociale troppo impregnato di negatività, troppo lontano da forme di dialogo e sforzi di avvicinamento parziale che hanno nel passato spesso contrassegnato le relazioni sociali o politico-sociali. E allora dico: rispetto delle prerogative di decisione del governo e del Parlamento, senza improprie e devianti commistioni, e rispetto del ruolo che è naturale dei sindacati, di rappresentanza e – negli ambiti appropriati – negoziale; e sforzo convergente di dialogo anche su questioni vitali di interesse generale”.
Insomma, lo stesso ragionamento avanzato da Renzi: i sindacati si occupino della contrattazione aziendale, che alle questioni generali ci deve pensare soltanto il governo, inseme all’Unione Europea, alla Bce e al Fmi. L'”interesse generale” vuole dunque che il sindacato cessi di essere soggetto altrettanto “generale”, ossia “politico” perché pretende di discutere di assetti generali attinenti alla condizione dei lavoratori (contrattazione nazionale, welfare, pensioni, sanità, istruzione, ecc).
f) Neanche la legge elettorale è stata dimenticata. L’Italicum deve passare anche se in palese contrasto con la sentenza della Consulta che ha annientato il porcellum. “Rispettare la coerenza delle riforme in gestazione, anche quella elettorale, è un dovere di onestà politica e di serietà”. Onestà politica è dunque il contrario di quel che significa, ed anche la dote della “serietà” viene confinata alla funzione di obbedire “seriamente” alle scelte del governo. Le quali – per definizione e santificazione presidnziale – sono ipso facto “il bene del paese”. C’è quasi da rimpiangere il “pensiero unico”, in fondo lasciava qualche margine di discussione…
g) Non possiamo, in conclusione, non sottolineare la forse involontaria indicazione dei veri dirigenti dell’attuale corso politico e programmatico della governance italica, racchiusa come ovvio nella realizzazione delle riforme strutturali: “i nostri amici in Europa e nel mondo si attendono precisamente questo. Non deludiamoli”.
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