“Il presidente del Consiglio, accompagnato anche dal ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, si è recato all’unità di montaggio dello stabilimento arrivando in una Jeep Renegade rossa (una delle auto che ha rilanciato la fabbrica lucana): alla guida l’ad di Fca, Sergio Marchionne, al lato passeggeri il premier e sul sedile posteriore il presidente di Fca, John Elkann”.
L’incipit dell’agenzia Ansa ci riporta direttamente alla retorica dei comunicati radiofonici dell’Eiar, come si chiamava l’attuale Rai in epoca fascista. E spiega, indirettamente, perché Matteo Renzi abbia preferito lo spot elettorale con Sergio Marchionne in quel di Melfi al palcoscenico allestito da Confindustria in un padiglione dell’Expo.
Lì c’è “l’impresa che funziona” e fa profitti, a Milano quella che arranca. Lì c’è chi ha creduto in lui fin dall’inizio (ormai proverbiale la battuta di Marchione su “Renzi? Ce lo abbiamo messo noi…”), nell’altra platea una massa di interessi diversi, con referenti politici altrettanto sfrangiati.
Chiaro chi ha vinto e chi deve adeguarsi, anche controvoglia. Basta leggersi il post scriptum dell’editoriale di Dario Di Vico, sul Corriere della sera: “Secondo le anticipazioni diffuse da fonti ufficiali, nel testo del presidente a proposito di relazioni industriali avrebbe dovuto esserci un accenno alla possibilità di derogare ai contratti nazionali di lavoro. Un’affermazione che avrebbe dato pienamente ragione ex post a Sergio Marchionne e forse per questo motivo è stata accantonata. Però il gruppo dirigente della Confindustria sembra comunque intenzionato a percorrere questa strada”.
Il punto stabilito da Marchionne con il “modello Pomigliano” è marmoreo: niente più contratti nazionali di lavoro, solo accordi aziendali e sulla base delle priorità dell’impresa. Le “deroghe” sono, in questo quadro, solo dei sotterfugi temporanei per svuotare dall’interno la contrattazione “vecchio tipo”, in attesa di un quadro legislativo (o concordato tra le parti sociali) che assuma pienamente il nuovo modello.
All’interno di questo quadro c’è anche la cancellazione della rappresentanza sindacale. O almeno l’esclusione di quelle forme di rappresentanza che non riconoscono lìinteresse dell’azienda come l’unico faro e limite da rispettare. Insomma, basta con quella “vecchi” storia che il sindacato deve fare gli interessi dei lavoratori, magari contrapposti a quelli dell’impresa. Le sortite renziane sul “sindacato unico”, corporativo e aziedalista, sono la faccia politico-governativa di una spinta alla riduzione dell’ex sindacato complice a “camera di compensazione” delle relazioni industriali, a funzione dipendente dall'”ufficio del personale”.
E qui il quotidiano di Confindustria, IlSole24Ore, risponde con un altro editoriale, di Alberto Orioli, che prende di petto proprio “La frontiera aziedale”, indicando la cornice entro cui dovrà muoversi la nuova contrattazione. “all’intero sistema industriale serve un quadro di riferimento certo nel governo della variabile costo del lavoro e soprattutto servono nuovi criteri razionali per agganciarlo a parametri esigibili di produttività e redditività dell’azienda e del lavoro”. Il salario agganciato alla produttività dell’azienda è un concetto “smart” che nasconde una realtà un tantino più hard: se guadagno in produttività ti posso pagare un po’ di più, altrimenti nisba.
Ma la produttività si aumenta solo in due modi, in regime capitalistico:o con investimenti in tecnologie produttive oppure aumentando l’orario e l’intensità della prestazione lavorativa. Se le imprese non investono (rimprovero mosso anche dal governatore della Banca d’Italia, l’altroieri), resta una sola strada. Miope e suicida (gli “emergenti” sono imbattibili su questo fronte), ma quasi obbligata: strizzare sangue dalle rape, obbligando i dipendenti a lavorare più a lungo e più intensamente. Di qui anche la necessità di ridurre a zero il potere contrattuale del singolo lavoratore, puntandogli alla testa la pistola della minaccia di licenziamento, finalmente regalata dal governo con l’abolizione totale dell’art. 18. Di qui anche la necessità di eliminare le forme di rappresentanza sindacale autentica, conflittuale.
Resta sullo sfondo del “nuovo” discorso confindustriale la natura minacciosa dell’Unione Europea “tedesca” – si può sintetizzare così la lunga sequenza di lamentele su una Ue ” senza anima e cuore”, sul “rigorismo eccessivo”, sulla tragica tentazione di “arroccarsi intorno al nucleo duro dell’eurozona” – che, non potendo essere messa in discussione dall’industria, dovrebbe essere modificata dalla “politica”. Ossia da questi poveri personaggi in cerca d’autore – Renzi, Boschi, Madia et similia – gettati sul palcoscenico mediatico a recitar la parte degli “innovatori”.
Certo che gli industriali italiani non sanno far altro che darsi la zappa sui piedi…
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