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Una “legge di fiducia” che Bruxelles deve approvare per forza

Il giudizio macroeconomico è unanime ed anche rispondente al merito: le legge di stabilità (addirittura definita “di fiducia” da Renzi, nel doppio senso esplicito del voto parlamentare senza discussione e dell’intenzione di raccontare al paese una favola ottimistica) è moderatamente espansiva, dopo anni di soli tagli.

Ci sono anche questi, ci mancherebbe, ma un po’ meno (5,8 miliardi, di cui due a carica della sola sanità) del previsto solo due mesi fa nel Def (10 miliardi). La lista dei contenuti è lunga e non ve la proporremo tutta per ovvii motivi. Il dato fondamentale è infatti politico, non tecnico-finanziario.

Com’è possibile che un governo di destra, anche e soprattutto sul piano economico-sociale, vari una manovra moderatamente espansiva, quasi completamente in deficit (27-30 miliardi), senza troppi timori di incorrere nelle bastonate dell’Unione Europea?

La ragione interna, nazionale, è quasi esplicita: a primavera si vota e i sondaggi “veri” danno il pd in caduta libera, travolto non solo dagli scandali e dal cinismo con cui si è sbarazzato del fedele ma bislacco Ignazio Marino, oppure per la dinvoltura anticostituzionale che ha fatto del pitreista Verdini un “padre nobile costituente”, ma soprattutto dalla politica economica seguita finora (Jobs act, pensioni, scuola, diritto di sciopero, diritti dei lavoratori, ecc), che ha approfondito la caduta dei redditi già bassi mentre ha assicurato forti spazi di profitto per le imprese.

E bisogna dire che anche la nuova finanziaria insiste sul privilegiare esclusivamente le imprese, non concedendo quasi nulla al lavoro (basta guardare alle risorse stanziate per rinnovare i contratti del pubblico impiego: 300 milioni, in pratica 5 euro netti al mese). Mentre semina pillole di favoritismo interclassista (l’abolizione della Tasi sulla prima casa, che per gli immobili di tipo popolare può valere un centinaio di euro o poco più, mentre per quelli di lusso si arriva tranquillamente vicino ai 3.000), difficile persino da decostruire analiticamente.

Ma lo sforzo di stimolare l’economia trapsare abbastanza evidente, anche se totalmente delegato all’iniziativa e alle scelte delle imprese private, senza alcuna idea di politica industriale. Anzi, la privatizzazione in corso dei pochi pezzi pregiati ancora controllati dal pubblico (il 34% di Poste Italiane, mentre in via XX Settembre si sta già studiando la collocazione in borsa anche di Ferrovie dello Stato) sta ad indicare che il “pubblico” va verso la completa sparizione.

Una scelta suicida, diciamo subito, perché la crisi è tutt’altro che finita, specie in Europa; e ancora non si possono fa sentire i contraccolpi macroeconomici dello scandalo Volkswagen sull’insieme delle filiere produttive continentali che hanno quasi sempre il loro vertice nelle multinazionali tedesche.

Ma domanda resta: com’è possibile “spendere e spandere” senza che l’Unione Europea usi la clava? Perché Renzi non è Syriza 1.0 (quella tra gennaio e il 13 luglio), e deve poter avere una chance di passare indenne una tornata elettorale molto ma molto rischiosa. Non per caso il guitto di Pontassieve va strombazzando in giro di avere già in tasca l’ok di Merkel e Juncker, il presidente della Commissione che deve analizzare il testo inviato ieri sera a Bruxellles.

Non è comunque un sì scontato, sia per l’entità della manovra che per la sua composizione. 16 dei 27 miliardi andranno soltanto a disattivare il previsto avvio della “clausole di salvaguardia” il prossimo 30 giugno, con l’aumento dell’Iva al 24% nell’aliquota principale (dal 10 al 12% per i prodotti “agevolati”). E molti di più ne andrebbero trovati nei prossimi anni per disinnescare le altre scadenza similari (Iva al 25 e al 13% nel 2017, e al 25,5% nel 2018). Insomma, soldi che non vanno all’economia reale, ma servono solo a tamponare un buco finanziario che sarebbe provocato da minori entrate previste. Al tempo stesso, però, evitare l’aumento ulteriore dell’Iva è un modo per non deprimere ancor di più l’economia reale, con un aumento della tassazione che oltretutto contraddirrebbe platealmente la scelta “strategica” della riduzione delle tasse.

Rimae soltanto un’incertezza, relativa al cosiddetto “sconto migranti” per i paesi che debbono affrontare il grosso degli ingressi. Uno 0,2% in più nel rapporto deficit-Pil, che equivale a circa 3 miliardi, e che potrebbe fa levitare la manovra fino a 30 miliardi. L’utilizzo di questo “tesoretto” eventuale è già deciso: la diminuzione dell’Ires, una tassa che pagano le imprese, ovviamente.

Il tutto si regge su un paio di speranze, non previsioni scientifiche. In primo luogo che la “crescita” possa subire un qualche accelerazione (se sale il Pil, diminuisce in proporzione il debito pubblico, ed anche il deficit). Speranza che, dai dati provenienti dal resto d’Europa e del mondo, appare piuttosto inconsistente. In secondo luogo, sulla speranza che le imprese facciano la loro parte investendo, invece di continuare a riversare i profitti nel circuito finanziario. Il che rimanda alla prima speranza, in un loop senza soluzione.

Resta dunque solo la relativa certyezza di una maggiore “flessibilità” concessa al governo Renzi dall’Unione Europea per fini puramente politico-elettorali. Anche la Ue e la Germania, insomma, si rendono conto che devono continuare ad avere in Italia un loro uomo fidato, quindi debbono sostenerlo anche concedendo qualcosa in più rispetto alle “regole”. In fondo, tra Jobs Act, riforme costituzionali autoritarie, scuola, pensioni, contrattazione, demolizione del sindacato, ecc, è un alleato che ha dimostrato di saper fare il lavoro sporco meglio di altri.

Se qualcuno crede ancora al fatto che queste “regole” obbediscano a una logica economica, anziché solo politica, è servito.

 

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