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Con Davide e gli altri, nel carcere di Teramo

Il carcere di Teramo è un moderno fortino, immane blocco di ferro e cemento arroccato sulla cima di un colle, totalmente estraneo al paesaggio circostante, fatto di dolci declivi coperti di uliveti, di montagne che si ergono in lontananza, bianche di neve.

Vi giungo in una mattina d’autunno che sembra primavera. Sole chiaro e aria profumata, un invito al libero andare. Penso a come si debbano sentire le donne e gli uomini oltre le sbarre.

Sono qui insieme alla delegazione in visita al carcere, a conclusione dell’iniziativa organizzata ieri dall’Osservatorio contro la repressione con un partecipatissimo convegno dal titolo “ Chi devasta e saccheggia è il capitale”, sugli scempi sociali e ambientali, la repressione nei confronti di chi vi si oppone, l’urgenza di un’amnistia sociale che liberi dalle galere quanti scontano il reato di povertà e con loro i compagni che – alcuni da mezzo secolo – pagano duramente l’antagonismo all’ingiustizia e alla schiavitù.

Tra poco vedrò Davide, Davide Rosci, uno dei giovani arrestati in seguito agli scontri avvenuti a Roma il 15 ottobre 2011, che sta scontando una condanna a sei anni per “devastazione e saccheggio”, un reato esistente solo per la legge italiana, triste eredità del codice fascista Rocco.

La visita comincia con le solite formalità, ( il controllo documenti il deposito borse e cellulari, la compilazione dei fogli di generalità). Al di là del pesante cancello c’è silenzio. Alcuni detenuti trasportano i bidoni della spazzatura, una quotidianità che stride con l’eccezionalità del luogo.

In una saletta interna il medico del carcere sta tenendo un corso per il personale di custodia e gli operatori sociali su temi trattati in due volumetti che ci vengono forniti: “ Conoscersi per amarsi. Tutela della salute della donna” e “Salute Mentale dei Soggetti Reclusi”.

Gli agenti che ci accompagnano non nascondono le difficoltà e le carenze: il sovraffollamento endemico, la presenza di carcerati con problemi psichiatrici che il carcere aggrava (nei mesi scorsi si sono verificati tentativi di suicidio), portatori di handicap in una struttura piena di barriere architettoniche, mancanza di spazi per attività lavorative e artigianali che permettano alla persona, insieme all’acquisizione di una professionalità, l’evasione almeno mentale dall’alienazione carceraria. Le attività che i detenuti svolgono a rotazione sono legate esclusivamente alla gestione interna quotidiana: pulizie, cucina, piccola manutenzione. C’è anche un orto per consumo interno, tenuto da reclusi che compiono in carcere gli studi di agraria (si preparano da privatisti, come anche altri, studenti di istituti professionali e universitari di Giurisprudenza). Il pezzo di terra è minuscolo, davvero un’anomalia rispetto al cemento circostante, ma dai teli delle brevi serre debordano fragole meravigliose, un rosso grido di vita in mezzo a quel morto grigiore.

Nei pressi del reparto femminile è stato allestito uno spazio per i colloqui con le famiglie: colori pastello alle pareti, affreschi di animali e pupazzetti eseguiti da un detenuto, mobili chiari, arredamento domestico; all’esterno un piccolo giardino con panchine e giochi per bambini. M è uno spazio disabitato: le donne e i bambini sono altrove, oltre i cancelli che si aprono e si chiudono al nostro passaggio.

Nel reparto femminile grandi pulizie del sabato, pavimenti tirati a specchio, le donne sulle porte delle celle in attesa che si asciughi il lungo corridoio centrale. Vado da loro; mi abbracciano, vogliono sapere il mio nome. Hanno età diverse, un’anziana, tante giovani, alcune giovanissime; qualcuna indossa il grembiule come nella cucina di casa.

Sento crescere il disagio per una visita che, oltre al saluto e all’abbraccio, non lascia loro niente, non porta buone novelle, non apre cancelli né abbatte inferriate, non renderà più leggero il carico dei mesi e degli anni scanditi da giorni vani e notti interminabili, non parla del dopo.

Il cuore del reparto femminile è il nido, che ospita con le madri, i bambini fino a tre anni d’età. Sulla porta della cella, in braccio alla giovanissima mamma , trovo Laura, nata lo scorso 14 novembre; dorme serena e ignara, fagottino rosa dai pugnetti serrati, lei così piccola e già privata dell’aria libera e del sole, rinchiusa in stanze tristi dove il cielo si vede solo dalle inferriate. Quale futuro questa società di sepolcri imbiancati riserva a lei, alla sua pallida madre bambina? E come può essere tutto questo un riosarcimento alla “società offesa”?

Saliamo col montacarichi al quinto piano, nel reparto dei comuni. (i piani sottostanti sono riservati ai detenuti per mafia, ai collaboranti, ai condannati per violenze sessuali).

Anche qui le celle sono aperte, il corridoio affollato.

Ci accompagnano alla cella di Davide. Un giovane (il suo coinquilino) sta spazzando vigorosamente con acqua e sapone il pavimento.

Davide arriva dal fondo del corridoio, sorridente sotto la gran barba; abbracci e commozione. Chiede dei compagni , del Movimento NO TAV, dell’assemblea tenutasi il giorno precedente. E’ forte, sereno e pieno d’amore, nonostante tutto, come chi affronta la sua strada senza arroganza ma con determinazione, capace , anche nella disumanità del luogo, di provvedere agli altri, ai più deboli e dimenticati. I compagni di detenzione gli si fanno vicini. Al direttore che intanto è sopraggiunto chiede anche per gli altri detenuti la possibilità di attrezzare una palestra, l’accesso ai canali televisivi; lo fa senza deferenze, con tranquilla autorevolezza.

La minuscola cella che divide con un compagno , parla di lui e dei suoi affetti: le foto dei familiari, i disegni dei nipotini, una piccola scansia di libri, il ritratto del Che, i colori del Teramo, una miriade di adesivi che rivendicano la sua militanza antifascista, le lotte sociali e ambientali tra cui spiccano i simboli NO TAV.

Dalla finestrina ferrata si scorgono i terreni che scendono tra casali e coltivi fino al mare, ma Davide ama i monti e, prima del commiato, mi accompagna in fondo al corridoio, alla vetrata da cui si può vedere il GranSasso innevato ed accanto ad esso quello che la leggenda chiama il gigante dormiente, un profilo supino di idolo, ieratico nel suo candido splendore. Mi viene da pensare che della stessa fibra forte e dolce siano plasmati Davide e questi generosi compagni che mi hanno accolta, ospitata, accompagnata.

Dal treno del ritorno, in corsa lungo un mare che ieri era di piombo ed ora accoglie l’ultima luce del tramonto ripenso a loro e scrivo queste note.

Nicoletta Dosio 

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