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Come risarcire i truffati? Espropriare gli amministratori delle banche fallite

Ogni giorno, spulciando le cronache locali, si leggono notizie come questa:

 

Truffata con la solita storia del falso incidente capitato a un familiare. La vittima una anziana civitanovese. La donna, 88 anni, vive sola. Non ha sospettato nulla quando ha ricevuto la telefonata di un uomo che la avvertiva di un incidente capitato al nipote e che sarebbe passato a casa sua perché c’era la necessità di pagare subito un risarcimento per toglierlo dai guai. La poverina gli ha aperto la porta e il balordo è riuscito a farsi consegnare duemila euro. Italiano, vestito bene, accento non del posto secondo quanto l’anziana ha raccontato ai carabinieri che hanno raccolto la denuncia e che mettono in guardia gli anziani di non cadere in questa odiosa truffa.

Commozione, denuncia, identikit del truffatore, qualche volta si arriva all’arresto. In fondo il gioco è così facile che qualsiasi balordo diventa un truffatore seriale, quindi prima o poi viene pizzicato. E paga.

In questi giorno leggiamo anche di un’altra notizia. Qualche banca ha prima “convinto” i propri clienti meno informati in questioni finanziarie a sottoscrivere obbligazioni emesse dalla stessa banca, ricattando – il termine non ci sembra affatto eccessivo – i clienti stessi mediante la minaccia di non rinnovare il fido, oppure la promessa di abbattere il tasso di interesse sul mutuo, ecc. Poi, in vista del fallimento, ha trasformato l’adesione alle obbligazioni ordinarie in sottoscrizione di obbligazioni “subordinate” (senza alcuna garanzia, insomma), comunicandolo ai clienti via posta (con quei poderosi incartamenti scritti piccolissimo che nessuno legge, anche per la sovrabbondanza di termini che neanche un lettore accanito de IlSole24Ore riesce spesso a comprendere. Quindi hanno comunicato ai clienti che i loro risparmi si erano volatilizzati. Punto.

A noi, comuni mortali, non sembra che ci sia alcuna differenza tra i balordi e la banca. Entrambi truffano le vecchiette o comunque quelli che “si fidano” per ignoranza. E anche voi sarete d’accordo che è più facile “fidarsi” di una banca “di prossimità”, nel vostro stesso paese, con impiegati che incontrate al bar o al ristorante ogni settimana, che magari vi sono anche parenti alla lontana, piuttosto che del primo che suona alla porta.

La questione che proprio non capiamo è questa: come mai il balordo truffatore viene arrestato e finisce in galera mentre il banchiere no? Addirittura il banchiere bancarottiere non subisce neppure un danno professionale, al punto che il giorno dopo il commissariamento dell’istituto che dirige potrebbe benissimo accasarsi in altra banca (per l’incrocio inestricabile tra le poltrone spesso ciò è già avvenuto, prima ancora del dissesto), essere riverito come un grande manager e continuare a fare lo stesso identico lavoro. Truffare i clienti, insomma.

Come avrete letto nei giorni scorsi, il governo Renzi è intervenuto con un decreto varato in 25 minuti per “salvare” le quattro banche che erano fallite anche svuotando i conti dei clienti. Un decreto pasticciato, che mette insieme il bail in deciso dall’Unione Europea (in caso di fallimento pagano azionisti e obbligazionisti, in primo luogo, ma anche i semplici correntisti con più di 100.000 euro sul conto, e per la parte eccedente questa cifra), e un fondo interbancario teoricamente privato (i soldi li mettono le altre banche) ma “garantito dallo Stato con apposite defiscalizzazioni (ovvero rinunce a incamerare una quota delle tasse sui profitti). Un meccanismo che ha fatto felici tutti, meno i truffati.

Inseguito dalle proteste dei “risparmiatori”, peraltro residenti quasi tutti nelle aree di più antica fedeltà al partito del premier, il governo ha pensato bene di inventarsi un altro meccanismo solo parzialmente risarcitorio nei loro confronti, con identiche modalità: un fondo interbancario, teoricamente privato, ma garantito da altre defiscalizzazioni. Insomma, con soldi pubblici, ma solo in seconda battuta, così si nota meno e non si prendono schiaffoni da Bruxelles. Poca roba, quanto basta per un’elemosina e una pacca sulla spalla, ma “risarcire tutti non è possibile”, perché le regole del mercato sono quelle che sono: se uno investe in capitale di rischio, sono affari suoi.

Neanche la vecchietta che affida i suoi soldi al balordo viene risarcita, in fondo, se non con una colletta tra vicini e conoscenti, forse. E tutti quelli che giocano in borsa o si affidano ai gestori professionali di fondi di investimento, se le cose vanno male, perdono e devono stare zitti.

Però…

Se il balordo viene arrestato in tempo, e ancora non si è speso tutto, i soldi alla vecchietta vengono restituiti. E i poveri clienti raggirati dalle banche non sono proprio uguali agli investitori per scelta. Nessuno, infatti, ti obbliga a portare i tuoi soldi a una Sgr (ma qualche volta ti costringono a farlo in una società equivalente, ossia un fondo pensione integrativo). Ma se la “tua” banca ti cogliona con proposte allettanti o ricattatorie il gioco è un po’ diverso. Sei vittima di una truffa, non di un’investimento sbagliato. Al pari della vecchietta raggirata dal balordo.

Una delle domande di queste ore è infatti: si devono risarcire o no questi clienti truffati? E se sì, come appare in certi casi ovvio (stiamo parlando di una truffa, non di un’investimento sbagliato), chi deve pagare?

Il governo, come sempre, pensa di prendere i soldi dalle tasche dei contribuenti. Le varie forze dell’opposizione parlamentare strillano sul risarcimento ma non indicano chi dovrebbe tirar fuori i soldi. I truffati non si fanno neanche la domanda, limitandosi a dire che rivogliono il maltolto.

Questi ultimi, nel parossimo della perdita, se la sono presa soprattutto con i “politici”. Che hanno una grande parte di responsabilità, avendo stilato il “decreto salvabanche”. Ma che, almeno in questo caso, sono colpevoli di “complicità con le banche”, ma non si sono messi materialmente i tasca i soldi dei truffati (un ministro forse sì, per via familiare, ma ci stiamo arrivando).

Nessuno – e questo appare davvero sorprendente, o indicativo della follia del dibattiro pubblico attuale – ha invece indicato gli amministratore delle quattro banche. La nostra modesta proposta risarcitoria è insomma questa: questi signori vanno espropriati di ogni loro avere, immobiliare, societario o mobiliare (liquidi). In fondo, soltanto in Banca Etruria, si sono concessi da soli 185 milioni di “fidi” fatti precipitare tra quelli “incagliati” (insomma: mai restituiti). La somma così reperita potrà essere utilizzata per risarcire i truffati ed eventualmente ridurre l’esposizione della banche “salvate”. Che andrebbero semmai “nazionalizzate” e restituite alla loro funzione originaria (raccogliere risparmi, erogare prestiti “assennati”).

Il loro “disegno criminoso” appare infatti davvero esplicito, quanto quello del balordo che si introduce in casa della vecchietta. Per comprovarlo, pubblichiamo qui di seguito due articoli tratti da giornali decisamente “amici” del governo e del premier in carica; ma che su questa faccenda non hanno proprio potuto esimersi dallo sputtanare l’approssimazione predatoria dei ministri messi al servizio di ualche banchetta di provincia. Uno, di Alberto statera, da Repubblica, dà conto della storia infame di Banca Etruria e del ruolo – decidete voi l’aggettivo – svolto dal padre e dal fratello della signorina Boschi Maria Elena, “solo” azionista della stessa banca, ma che non inseriremmo mai tra i “truffati”. L’altro, di Mario Gerevini, dal Corriere della Sera, che illustra le tecniche ricattatorie messe in atto dai quattro istituti (e da tutti gli altri ancora non colpiti da “ispezioni” della Banca d’Italia) nei confronti dei clienti più fragili e ignari (le “vecchiette”, per capirci).

Le altre misure che qui e là vengono auspicate – come la “perdita dell’onorabilità” degli amministratori decaduti – sono solo particolari di contorno, così come il divieto di continuare a fare lo stesso mestiere. L’espropriazione totale, invece, ci sembra davvero il minimo della pena. Anche un po’ di galera, almeno quanta ne fanno i balordi che entrano in casa, potrebbe tornare utile a diradare le nebbie della disinvoltura finanziaria. Almeno di quella italica.

*****Etruria, banca spolpata tra fidi ai consiglieri e yacht “fantasma”

ALBERTO STATERA
ROMA.
“Come è umano lei!” Se non ci fosse già la mestizia per un morto suicida, verrebbe da usare le parole di Giandomenico Fracchia ne “La belva umana” per giudicare “le misure di tipo umanitario” annunciate dal ministro Pier Carlo Padoan a favore dei risparmiatori più poveri, il parco buoi che con le obbligazioni “subordinate” di quattro banche ha perso tutto.
Ruggisce la Chimera di Arezzo verso i 13 ricchi ex amministratori e 5 ex sindaci di Banca Etruria che invece probabilmente non restituiranno mai i 185 milioni che si sono auto-concessi con 198 posizioni di fido finiti in “ sofferenza” e in “incaglio”, settore che in banca curava Emanuele Boschi, fratello del super-ministro Maria Elena. Né, visti i precedenti, restituiranno i 14 milioni riscossi di gettoni negli ultimi cinque anni. Figurarsi poi i 20 primi “sofferenti” per oltre 200 milioni. A cominciare da Francesco Bellavista Caltagirone dell’Acqua Antica Pia Marcia, “un dono fatto all’Urbe dagli dei”(Plinio il Vecchio) esposta con le sue controllate per 80 milioni o la Sacci (40 milioni) della famiglia Federici, passata adesso all’Unicem, o la Finanziaria Italia Spa del Gruppo Landi di Eutelia (16), o ancora la Realizzazioni e Bonifiche del Gruppo Uno A Erre (10,6) , l’Immobiliare Cardinal Grimaldi, titolare di un mutuo di 11,8 milioni a 40 anni, una durata che non esiste sul mercato, e l’ Acquamare srl (17,1) sempre del gruppo Bellavista Caltagirone.
Tra le storie più deliranti tra quelle nelle quali ci si imbatte percorrendo i sentieri delle quattro banche fallite, la più sconclusionata è quella del panfilo più lussuoso al mondo che doveva essere costruito dalla Privilege Yard Spa a Civitavecchia, lungo 127 metri e già opzionato – si diceva – da Brad Pitt e Angelina Jolie. Dal 2007, quando fu costituito il pool di banche capeggiato dall’Etruria, esiste solo il rendering della nave di carta e la società è fallita con un buco di 200 milioni. L’inventore del bidone si chiama Mario La Via, che si definisce “finanziere internazionale”, e che esibiva come suoi soci l’ex segretario generale dell’Onu Perez de Cuellar, il sultano del Brunei e Robert Miller, azionista di Louis Vuitton e CNN. L’inaugurazione del cantiere fu benedetta dal cardinale Tarcisio Bertone. Nel consiglio figuravano Mauro Masi, ex direttore generale della Rai, Giorgio Assumma, ex presidente della Siae, e il tributarista Tommaso Di Tanno. Per non farsi mancare niente, tra gli sponsor c’era anche Giancarlo Elia Valori, l’unico massone espulso a suo tempo dalla P2 di Licio Gelli. D’altro canto, la Banca Etruria è da lustri teatro dello scontro e anche degli incontri d’interessi tra finanza massonica e finanza cattolica. Quasi tutte storie che vengono dalla notte dei tempi.
La Banca dell’oro, come era chiamata per il ruolo nel mercato dei lingotti, nasce nel 1882 in via della Fiorandola come Banca Mutua Popolare Aretina. Ma è cent’anni dopo, nel 1982, che comincia l’espansione con l’acquisto della Popolare Cagli, della Popolare di Gualdo Tadino e della Popolare dell’Alto Lazio, feudo di Giulio Andreotti che era sull’orlo del default. E comincia il trentennio del padre-padrone Elio Faralli, classe 1922, massone, che rinunciò alla presidenza con una buonuscita di 1,3 milioni e un assegno annuale di 120 mila euro perché a 87 anni non facesse concorrenza alla sua ex banca. Scomparso nel 2013 e sostituito dal cattolico Giuseppe Fornasari, ex deputato democristiano, Faralli sponsorizzò tutte le prime venti operazioni in sofferenza di cui abbiamo dato conto, salvo 20 milioni deliberati ancora per la nave di carta durante la presidenza Fornasari. Risale poi al 2006 l’acquisto di Banca Federico Del Vecchio. Doveva essere la boutique bancaria che portava in Etruria i patrimoni delle ricche famiglie fiorentine, ma si è rivelata un buco senza fondo. Un giorno Faralli si rinchiuse da solo in una stanza col presidente della Del Vecchio e ne uscì con un contratto di acquisto per 113 milioni, contro una stima di 50, mentre mesi fa veniva offerta in vendita a 25 milioni.
“La Banca Etruria non si tocca,” andava proclamando il sindaco di Arezzo Giuseppe Fanfani, nipote del leader storico della Democrazia Cristiana Amintore e figlio del leader locale Ameglio, alla vigilia di lasciare l’incarico per trasferirsi nella poltrona di membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura. Un sindaco aretino, chiunque egli fosse, era costretto a difendere “per contratto” l’icona bancaria cittadina, 186 sportelli e 1.800 dipendenti, con un modello fondato su un groviglio di interessi intrecciati tra loro. Lo stesso modello ad Arezzo, come nelle Marche, a Chieti e Ferrara, con banchieri improvvisati, politici locali, imprenditori, azionisti, grandi famiglie feudatarie, truffatori, a spese dei piccoli correntisti spinti ad acquistare prodotti a rischio per loro incomprensibili.

Ma il mito della banca semplice, radicata sul territorio, per clienti semplici, dove tutti si fidano, si è infranto definitivamente un mercoledì del febbraio scorso, quando ad Arezzo di fronte ai capi-area convocati per avere comunicazione dei tragici dati di bilancio irrompono due commissari nominati dalla Banca d’Italia, Riccardo Sora e Antonio Pironti. Il presidente vuole annullare la riunione, ma i commissari dicono: “No, la riunione la facciamo noi.” E di fronte ai dirigenti esordiscono così: ”Qualcuno in Consiglio d’amministrazione insiste nel non voler capire bene la situazione”. E dalla sala si alza un commento:”Meglio i commissari che il geometra”, che non è altri che il presidente commissariato Lorenzo Rosi, affiancato dal vice Pier Luigi Boschi.

Ma la Banca d’Italia finalmente muscolare non fa miglior figura. Passano due o tre giorni e si scopre che il commissario di Bankitalia Sora è indagato a Rimini, dove era stato commissario della locale Cassa di risparmio per l’acquisto di azioni proprie “a un prezzo illecitamente maggiorato”.
Adesso, con il pellegrinaggio di ieri ad Arezzo di Matteo Salvini ed altri raccogliticci salvatori della patria, le polemiche tutt’altro che ingiustificate sulla Banca d’Italia, che era finora un tabernacolo inviolabile, si spostano dritte dritte sul governo Renzi.

Il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo evoca i 238 miliardi di aiuti alle banche messi dalla Germania, che poi ha promosso i vincoli per impedire interventi analoghi agli altri paesi, contro il nostro miliardo. E lamenta gli inadeguati poteri d’intervento e sanzionatori. Ma non spiega perché il commissariamento non fu fatto dopo la terribile ispezione del 2010 o dopo quelle altrettanto tragiche del 2013 e 2014.

Quanto al governo, ci ha messo non più di venti minuti per approvare il Salva-banche. Ma, attenzione. Così com’è, c’è chi teme che rischi di provocare altri monumentali guai.

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Salvabanche, le lettere ai clienti prima del crac: così il conto passava da basso ad alto rischio

di Mario Gerevini

Quando nell’aria già si sente lo scricchiolio sinistro del crac, partono le prime lettere a molti clienti della Banca Popolare Etruria. Le firma il direttore generale Daniele Cabiati a dicembre 2014. Altre lettere, analoghe, vengono spedite nei mesi successivi, siglate dai commissari straordinari di Banca d’Italia. «Gentile cliente (…) il suo portafoglio risulta non adeguato al suo livello di conoscenza ed esperienza finanziaria, alla sua situazione finanziaria e ai suoi obiettivi di investimento». Segue invito in filiale per «verificare la coerenza delle informazioni» fornite con il questionario Mifid sulla propensione al rischio. Così il cliente potrà valutare «eventuali interventi sul suo portafoglio». Anche chi aveva le obbligazioni subordinate (e classificato con bassa propensione al rischio) ha ricevuto la lettera. Sembra il tentativo della banca di mettere una pezza al peccato originale, cioè aver caricato i portafogli conservativi con titoli diventati «pericolosi».

È questa, con ogni probabilità, la lettera arrivata anche al pensionato suicida di Civitavecchia. «Tutto è cominciato a giugno – ha raccontato la moglie – quando la banca convocò mio marito, spiegandogli che il suo profilo non era più adeguato al suo investimento… lo convinsero a passare da un profilo a “basso rischio” ad uno ad “alto rischio”. Gli hanno fatto mettere un sacco di firme su un sacco di fogli».

Forse quelle lettere hanno ottenuto il risultato di sistemare dal punto di vista formale molte posizioni incoerenti e magari prevenire problemi legali. A fine dicembre quando la direzione generale spedisce la prima missiva è ancora in sella il vecchio consiglio di amministrazione, poi mandato a casa a febbraio dal commissariamento della Banca d’Italia. L’Etruria a fine 2014 ha già bruciato il patrimonio. Dunque si è alzato enormemente il rischio sui bond subordinati. Chi li ha in portafoglio non percepisce il pericolo. Però è questo il momento in cui si chiude l’ultimo spiraglio, cioè quel poco di mercato interno che muoveva gran parte delle emissioni. Sono titoli congelati. E lo spazio per «eventuali interventi sul suo portafoglio», come dice la lettera? Chiuso. E allora?

Una signora di Grosseto, ricevuta la comunicazione si è presentata all’appuntamento in filiale con le sue famigerate obbligazioni . «Voleva venderle – racconta l’avvocato Marco Festelli della Confconsumatori Toscana che ha raccolto ampia documentazione – ma le hanno detto che non c’è mercato, comunque di stare tranquilla. Ora sono azzerate. Forse per la banca quelle lettere erano un modo per scongiurare future responsabilità».

Le carte bancarie  di un’altra cliente dell’Etruria, Roberta, che non vuole comparire, sono molto significative. Nel dicembre 2006 apre un dossier titoli e la banca le assegna un «Profilo di rischio: basso». Contestualmente le vengono vendute obbligazioni subordinate con scadenza 2016 per 20.000 euro, unico titolo nel conto. Il 30 giugno 2010 l’estratto conto le attribuisce un profilo di rischio «medio» e nella contabile anche la rischiosità dell’obbligazione è indicata come «media». Sicché, in teoria, tutte le analoghe emissioni successive al 2010 avrebbero dovuto adeguarsi, quindi non piazzabili a chi pretendeva massima garanzia.

«Il bello è  – dice al telefono Roberta, 43 anni – che io mi sono ritrovata “media” senza saperlo. Anzi, non capendoci nulla di finanza, ho sempre ribadito che volevo la garanzia del mio capitale. Vendere? Ci ho provato ma non mi hanno fatto vendere». Il 30 giugno scorso, nel frattempo, la rischiosità del titolo indicata nell’estratto conto saliva di livello: «alto». Ora che cosa ci scriveranno?

 

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