Già lo scorso 16 gennaio migliaia di persone erano scese in piazza con i cortei di Milano e Roma – e con presidi in altre località – per dire no alla guerra, alla Nato e all’Unione Europea nel venticinquesimo anniversario dell’inizio di quella missione in Iraq che rappresentò l’apertura di una infinita stagione di conflitti bellici dalle conseguenze disastrose.
Una iniziativa coraggiosa per spezzare il muro di silenzio, omertà e complicità che contraddistingue ormai da anni, trasversalmente, il mondo politico e mediatico di un paese, l’Italia, che di guerre negli ultimi 25 anni non se ne è lasciata scappare neanche una, in barba all’ormai famigerato articolo 11 della Costituzione.
Il 12 marzo si replica, ma in un contesto in cui la guerra si è fatta più visibile e minacciosa, meno impalpabile. Il governo Renzi, gli stati maggiori, il presidente della Repubblica hanno non solo deciso di portare l’Italia all’interno dell’ennesimo evento bellico, ma addirittura di guidare una sorta di coalizione internazionale che pur di riprendere il controllo dell’altra sponda del Mediterraneo è pronta a replicare l’infausta operazione del 2011. Nel frattempo il caos, la destabilizzazione, la tribalizzazione della Libia ridotta in pezzi dall’intervento occidentale del 2011 sono sotto gli occhi di tutti, eppure gli stessi responsabili di quel disastro si candidano a mettere le cose a posto. La guerra si farà, dunque. Il problema sembra, ora, e soprattutto per il governo Renzi, come farla. Pressato da Washington e da Parigi – che rimproverano all’Italia un’eccessiva timidezza – il capo del governo ha già detto sì al coinvolgimento italiano in una missione militare i cui contorni non sono ancora chiari. Se da una parte l’Italia è ‘costretta’ ad intervenire nell’ex colonia per potersi sedere ad un eventuale tavolo di spartizione delle risorse energetiche del paese, dall’altra teme di impantanarsi in un conflitto che non promette di essere né facile né rapido. Ma le altre potenze coinvolte non vogliono assumersi interamente l’onere della missione e spingono affinché l’Italia faccia la sua parte in un complesso gioco di alleanze e di competizione.
E’ in questo quadro che, per sabato 12 marzo, un vasto arco di organizzazioni politiche, sociali e sindacali della sinistra radicale e di ciò che rimane del movimento contro la guerra dopo la cooptazione del suo stato maggiore all’interno dei meccanismi di governo locali e nazionali, si è assunto la responsabilità di convocare una giornata di mobilitazione nazionale contro una guerra che è già iniziata, anche se non si vede. Il meccanismo di guerra, interna ed esterna, è da tempo all’opera come uno schiacciasassi macinando spesa sociale – rimpiazzata con quella militare – , diritti – sospesi in nome della sicurezza -, democrazia – derubricata a pura accettazione supina dei diktat dei poteri forti, delle multinazionali energetiche, dei governi dell’Unione Europea, dei comandi della Nato.
Il rischio che, come negli ultimi anni, molti settori sociali pure sensibili alla lotta contro la guerra non si mobilitino perché la guerra proprio non riescono a vederla è alto. D’altronde non è detto che la guerra del 2016 abbia le stesse forme di quella di venti o anche solo dieci anni fa; gli interventi militari occidentali si son fatti più sofisticati e meno appariscenti, droni e forze speciali coadiuvate da milizie locali e mercenari hanno fatto spesso il lavoro sporco riducendo così l’esposizione dei paesi intervenuti a perseguire i propri interessi economici o geopolitici. Anche se il fatto che si continui, da Washington, a insistere sulla necessità di coinvolgere almeno 5000 militari rende il quadro meno rassicurante, rendendo più difficile la scelta a Renzi e a pezzi consistenti dell’establishment italiano ed europeo .
Ciò che rimane sempre uguale è il numero dei morti, soprattutto civili, che aumenta quanto più vengono impiegati strumenti sofisticati e tecnologici, e il fatto che a pagare il conto sono sempre le popolazioni dei paesi aggrediti e quelle dei paesi aggressori. Di qui lo slogan ‘le guerre son le vostre, i morti sono nostri’.
In questo contesto la responsabilità delle forze che si battono contro la guerra additando chiare controparti, meccanismi specifici, alleanze e basi militari coinvolte è ancora maggiore rispetto al passato, quando la esplicita violenza della guerra ‘vecchio stile’ e l’esistenza di un tessuto pacifista radicato e capillare rendeva più facili – anche se spesso meno incisive e più contraddittorie – le grandi manifestazioni No War.
Il 12 marzo si scenderà in piazza in molte città del paese e di fronte ad alcune delle più invadenti, pericolose e importanti basi militari della Nato. Per dire no agli appetiti degli apprendisti stregoni dell’imperialismo, per dire basta guerra, per gridare ‘fuori l’Italia dalla Nato’ e da tutte le alleanze e i meccanismi che rendono la partecipazione ai conflitti un meccanismo di fatto automatico.
E per dire chiaro e tondo che l’intervento italiano in Libia espone il territorio e la popolazione del nostro paese al rischio di diventare target di eventuali rappresaglie da parte dello Stato Islamico o di altri gruppi jihadisti ora che l’Italia si candida a guidare le operazioni belliche a Tripoli. Se il terribile scenario di sangue del Bataclan di Parigi o della metropolitana di Londra o della stazione di Atocha di Madrid dovesse ripresentarsi a Roma o in qualsiasi altra città italiana la colpa non potrà che essere del capo del governo, dei suoi ministri, delle forze politiche ed economiche che lo sostengono.
La Rete dei Comunisti, impegnata sia nella Piattaforma Sociale Eurostop sia nel più generale arco di forze politiche e sociali che hanno prodotto la giornata di mobilitazione No War del prossimo 12 marzo invita gli attivisti ed i compagni a partecipare al Seminario Nazionale “Migranti, mercato del lavoro, guerra” che si svolgerà il 19 marzo a Padova. Un appuntamento di riflessione e di elaborazione attorno ad alcuni snodi che attengono all’attuale scenario di competizione globale e di rinnovato scontro tra potenze.
Rete dei Comunisti, 8 marzo 2016
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