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Firenze. Processo contro il movimento e manifestazione il 9 aprile

Contro la repression, la solidarietà è lotta!
Lunedì 21 marzo il PM Coletta ha avanzato le richieste di condanna nel Processo contro il movimento fiorentino: le lotte politiche e sociali, studentesche, le mobilitazioni antifasciste e antirazziste, la solidarietà, i cortei e i presidi organizzate a Firenze dal 2009 al 2011 hanno, per l’accusa, un prezzo di 71 anni e 9 mesi di carcere.
La costruzione dell’inchiesta ruota attorno all’applicazione del reato di associazione a delinquere, utile alla criminalizzazione stessa delle lotte ed a una gestione politica di Procura e Digos, mentre le misure cautelari del 4 maggio e 13 giugno 2011 assumono un significato determinante proprio all’interno di quella gestione politica.
Le misure cautelari vengono imposte, richieste dal PM e giudicate necessarie dal GIP, per tre ragioni: pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato. La loro applicazione quindi non si basa sull’analisi di fatti specifici bensì sul giudizio politico e sociale della persona che il giudice si trova di fronte: conta “chi sei”, la tua appartenenza politica, il tuo lavoro, i tuoi rapporti, sia politici che personali.
La misura cautelare quindi è un dispositivo punitivo che anticipa la condanna, principalmente strumento appunto di coercizione preventiva, utile alla controparte per cercare sin da subito di esercitare pressione sugli indagati, arrivando agli interrogatori di garanzia in uno stato di privazione o restringimento di libertà in cui può essere sicuramente più facile che qualcuno scelga strade individuali, di differenziazione o dissociazione.
Nel caso del Processo contro il movimento fiorentino va sottolineato come su 86 compagn* indagat* , con a carico 35 misure cautelari, tutti i compagni interrogati si sono avvalsi della facoltà di non rispondere e tutti gli 86 sono arrivati a processo con rito ordinario, rifiutando patteggiamenti e riti abbreviati.
E’ necessario, come sempre, affrontare questa inchiesta e questo processo individuando il contesto e le strategie repressive che vi stanno dietro, la cornice all’interno della quale la strategia repressiva si articola, gli elementi e gli attori che ne determinano lo sviluppo, il suo rapporto dialettico con le fasi politiche ed economiche.
La cornice all’interno della quale si riadegua la strategia repressiva è quella della Fortezza Europea, della competizione interimperialista e della guerra, di cui i nostri territori rappresentano il fronte interno, da anni investito da tutte quelle misure che stati e governi reputano necessarie per il controllo sociale. E’ proprio all’interno di questo abbiamo il continuo inasprimento della legislazione antirepressiva e antiter che negli ultimi 30 anni ha caratterizzato l’Italia, dove l’accentramento dei poteri (esecutivizzazione) e la generalizzazione del controllo si è accompagnato con la specializzazione della repressione.
L’emergenza, già ben oliata nel ciclo di lotte degli anni ‘70/80, è stata leva di consenso attraverso il quale si sono legittimati tutti i passaggi che hanno segnato questa continua ristrutturazione: il 41 bis, i reati associativi, le leggi “antimmigrazione”, i CIE e i provvedimenti extragiudiziali, le leggi “antistadio”, la militarizzazione dei territori colpiti da calamità naturali e di quelli ritenuti di “interesse strategico” (muos, tav, discariche…), la progressiva erosione di agibilità e libertà in cambio di “sicurezza”.
Lo stato e gli apparati repressivi hanno avuto la forza e la capacità di reclutare e cooptare all’interno delle proprie file anche nuovi soggetti fino a quel momento estranei a compiti di controllo poliziesco: stiamo parlando dei controllori sugli autobus, degli stewards allo stadio, del personale medico addetto al TSO, di alcune tipologie di lavoratori coinvolti nella gestione dei CIE, i presidi e il corpo docente nelle scuole dopo l’approvazione della Buona Scuola.
A questo livello repressivo corrisponde però anche altro. Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un numero di controlli e perquisizioni antidroga all’interno delle strutture scolastiche sempre crescente accompagnate da lezioni e incontri in cui a salire in cattedra erano direttamente agenti di polizia con il compito di istruire gli studenti alla “cultura della legalità”, che ben lungi dall’essere superpartes, rappresenta la legalità dalla classe dominante.
Questa è la lente che dobbiamo usare anche per andare oltre la superficie di leggi come il Jobs Act che in realtà agiscono proprio sul piano del controllo e della repressione, dotando il padronato di tutti gli strumenti necessari per agire, in modo preventivo, contro ogni tentativo di organizzazione dei lavoratori che esca da un livello di compatibilità con le esigenze produttive.
Alla luce di questo ragionamento, così come sul piano internazionale lottiamo contro la guerra, sui luoghi di lavoro e sul territorio cerchiamo di agire nello scontro tra capitale e lavoro, crediamo sia imprescindibile non lasciare sguarnito il fronte repressione considerando la solidarietà come un elemento fondamentale della lotta stessa.
Lottare contro la repressione significa analizzare e approfondire il modo in cui si muovono gli apparati repressivi, individuando complici e responsabili di questa strategia compreso il governo in carica e in questo il Partito Democratico e il governo Renzi.
Lottare contro la repressione significa comprendere i meccanismi su cui essa fa leva per metterci a tacere e isolarci, innescare divisioni e percorsi de-solidaristici. Per questo è importante gettare lo sguardo all’interno delle mura carcerarie perché i livelli di divisione e differenziazione che oggi caratterizzano il sistema carcerario sono i medesimi che la controparte ripropone al di fuori.
Bisogna comprendere come i carcere sia emblema e punta emergente della repressione stesa e di un sistema diviso in classi.
Dove la controparte cerca di isolare, dividere e differenziare per noi il compito è quello di riallacciare legami e rapporti. Questo lo vediamo nelle carceri ma anche nella quotidianità dei quartieri popolari o sui posti di lavoro, dove un lungo percorso di spoliticizzazione e disimpegno di massa sta dando i suoi frutti amari nella crescita di sentimenti egoistici, razzisti e xenofobi, complici delle politiche reazionarie e guerrafondaie.
Si tratta di un meccanismo simile a quello utilizzato durante il periodo fascista dove lo Stato d’eccezione e di guerra era apertamente dichiarato. Lo Stato d’eccezione e di guerra si sono evoluti e trasformati fino ad arrivare noi: lo abbiamo visto nelle fasi storiche in cui si è alzato il livello dello scontro di classe e lo vediamo chiaramente ora che la guerra arriva a colpire all’interno dei confini della Unione Europea.
La solidarietà è quindi essa stessa uno strumento e una pratica di lotta. La solidarietà dev’essere una pratica capace di tenere insieme un ragionamento complessivo per sapere contrapporsi alla strategia repressiva, altrimenti corriamo il rischio di relegarla ai soli benefit, importanti ma non sufficienti, e esprimerla solo nei confronti dei propri affini e delle pratiche che riconosciamo come nostre.
La solidarietà invece, partendo dal carcere e al di fuori di esso deve tenere insieme tutti i soggetti colpiti dalla repressione: dai prigionieri politici fino ai cosiddetti comuni, lavoratori, studenti, immigrati, proletari e così via…
Questa è la tensione che porteremo in strada il 9 aprile a Firenze, rilanciando l’invito ad unirsi allo spezzone che aprirà il corteo dietro lo striscione “SOLIDARIETÀ PER CHI LOTTA, SOLIDARIETÀ AGLI 86!”
e ora tutti in piazza!
Le compagne e i compagni del CPA Firenze Sud
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