Quei pazzi scatenati del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), visti i disastri che hanno combinato nel mondo, dovebbero aver imparato quantomeno a stare zitti. E invece no. Continuano a produrre “ricette” che o vengono ignorate oppure vengono applicate. Nel secondo caso, per lo sventurato paese che le adotta, si aprono le porte dell’inferno. Chiedete alla Grecia, per conferma.
Come dei tossicodipendenti all’ultimo stadio, gli economisti del Fmi reagiscono al fallimento delle proprie indicazioni economiche raccomandando una maggiore dose delle stesse indicazioni. Non hanno funzionato le liberalizzazioni? Fatene di più, tutto andrà apposto. L’azzeramento delle tutele per i lavoratori – pudicamente inscritte alla voce “riforme del mercato del lavoro” – hanno prodotto riduzione dei consumi e deflazione? Insistete, date alle imprese un potere dittatoriale, e vedrete che ricomincerà “la crescita”. Le “politiche attive” relative al mercato del lavoro – incentivi alle imprese, sanzioni per i disoccupati che non riescono a trovare un nuovo lavoro, agenzie private per la riqualificazione e ricollocamento, ecc – hanno fatto flop? Spendete di più, voi Stati costretti da noi a tagliare tutte le altre spese sociali, e vedrete…
L’ennesimo studio del Fmi, che farà da base per i lavori del prossimo G20, ripete ossessivamente le stesse cose di sempre, incapace di variare la prospettiva in base ai risultati. Dal loro punto di vista, come sempre, l’insuccesso dipende dalla moderazione o lentezza con cui le proprie indicazioni sono state realizzate, mai sfiorati dal dubbio che si possa trattare di idiozie conclamate.
Fin qui siamo nell’ovvio e non varrebbe neache la pena di criticare ancora una vlta questo modo di ragionare (che in realtà è piuttosto un modo per imporre interessi finanziari e multinazionali molto precisi). Ma c’è un dettaglio politico, in questo rapporto, che merita di essere evidenziato, perché di grande rilievo per quanti si oppongono, in qualsiasi paese del pianeta, alle politiche di austerità.
Non c’è occasione migliore di una crisi per sbloccare lo stallo politico sulle riforme, osserva l’Fmi, chiarendo il metodo usato da sempre per imporre svolte altrimenti difficili. Il punto vero è la forza dell’opposizione alle “riforme” neoliberiste, vero rovello dei governanti di ogni paese. Dal loro punto di vista, insomma, i quasi mille progetti di riforme fissati nell’agenda del G20 due anni fa non hanno visto tutti concretamente la luce per la naturale paura dei governanti eletti di perdere le elezioni successive alle “riforme”. Ne abbiamo una prova quasi fisica in Italia, dove da quasi cinque anni sono in carica governi non eletti, che quindi soffrono un po’ meno questa sindrome senza peraltro esserbe immuni (ogni volta che c’è una tornata elettorale anche minima Renzi tira fuori l’idea di regalare 80 euro a qualcuno; ora li promette ai pensionati poveri…).
L’unico modo che il Fmi vede per “sbloccare” il ridisegno del modello sociale globale è dunque quello di sfruttare proprio le incertezze e le paure generate dalla crisi, moltiplicate dal “terrorismo” e dagli evidenti preparativi di guerra, per imporre autoritariamente quel che altrimenti non si riuscirebbe mai a far passare nella forma “ottimale”.
Da questo schema escono fuori due considerazioni strategiche: a) l’importanza di una opposizione sociale e politica di massa, che deve proseguire e svilupparsi; b) la necessità che questa opposizione alzi gli occhi dal proprio orticello particolare e comprenda la cornice globale entro cui si muove.
Perché è vero, come si diceva qualche anno fa, che occorre “pensare gobalmente, agire localmente”. Ma è ancora più vero, tragicamente, che “le pratiche locali” sono state subito privilegiate a scapito del “pensare globale”. Con il pessimo risultato concreto di non saper più bene entro quale ring si stava dando battaglia e, soprattutto, con quali compagni di strada e per quali obiettivi.
Come si può vedere dall’articolo apparso su IlSole24Ore, invece, questa consapevolezza – dall’altro lato della barricata – è preliminare a qualsiasi azione. Sono evidenziati i passaggi più rilevanti.
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Le tre ricette del Fondo monetario per ridare slancio alla crescita
Alessandro Merli
FRANCOFORTE – Liberalizzazioni, riduzione del cuneo fiscale, aumento della spesa in politiche attive del mercato del lavoro sono le tre ricette di effetto più immediato del Fondo monetario per rafforzare la crescita «troppo lenta e troppo fragile» su cui ha sollevato l’allerta martedì a Francoforte il suo direttore, Christine Lagarde.
L’Fmi parla da tanto tempo della necessità di riforme strutturali che un altro studio su questo tema dall’istituzione di Washington può apparire un déjà vu. Ma nei Paesi avanzati, dove la politica monetaria sembra aver raggiunto i propri limiti di efficacia, e soprattutto nell’eurozona, dove anche la politica fiscale è ingessata dalle regole europee, possono essere una carta decisiva per far fronte ai rischi crescenti per la ripresa.
Le riforme strutturali non si fanno perché spesso sono impopolari e vanno a colpire gruppi di pressione bene organizzati. E questo spaventa i politici. Nella celebre frase dell’attuale presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker: «Sappiamo quali riforme dobbiamo fare. Non sappiamo come essere rieletti dopo averle fatte». Il G-20 ha varato un paio d’anno fa un piano che inizialmente prevedeva quasi mille progetti di riforme, con l’obiettivo di alzare la crescita mondiale di un 2% entro il 2018, ma i ritardi sono tali che è pressoché impossibile che l’obiettivo venga raggiunto.
Eppure, non c’è occasione migliore di una crisi per sbloccare lo stallo politico sulle riforme, osserva l’Fmi, in uno studio appena pubblicato in vista degli incontri della prossima settimana a Washington, dove il problema del rilancio della crescita sarà al centro delle riunioni di ministri finanziari e governatori del G-20 e del Fondo monetario stesso. «Le riforme del mercato del lavoro e dei prodotti hanno in comune anzi tutto una cosa: tipicamente vengono introdotte in periodi di crescita economica debole, di alta disoccupazione, o entrambi». È certamente il caso dell’Europa in questo momento. Nel G-20, gli Stati Uniti sono più inclini a pensare che il momento richieda soprattutto un rilancio della domanda, mentre il paladino delle riforme strutturali è la Germania, che peraltro ha fatto le sue ormai un decennio fa e da allora vive sugli allori, come l’ha ammonita l’Ocse questa settimana.
Data la difficoltà di introdurre queste riforme, la scelta delle priorità e la sequenza dell’applicazione conta. Le riforme del mercato dei prodotti, per esempio le liberalizzazioni nelle reti, nel commercio al dettaglio, nelle professioni, che favoriscano l’ingresso di nuovi partecipanti sul mercato, hanno un impatto anche nel breve termine. Spingono l’investimento privato e favoriscono l’occupazione. Inoltre, hanno il vantaggio, in molti casi, di non presentare costi per le finanze pubbliche. Sono le cosiddette riforme a costo zero. L’Fmi cita le liberalizzazioni del trasporto aereo e delle telecomunicazioni degli anni 90 come due esempi di riforme che hanno portato forti aumenti di produzione, produttività e qualità dei servizi. I risultati in termini di aumento del prodotto interno lordo sono visibili già nel secondo anno dopo la loro introduzione.
Le riforme del mercato del lavoro sono spesso un tabù, soprattutto se ci sono elezioni in vista. Alcune però sono di maggiore effetto quando le condizioni macroeconomiche sono deboli, come è il caso attuale: per esempio, la riduzione del cuneo fiscale e l’aumento della spesa in politica attive del mercato del lavoro, che mirano cioè a riportare in attività i disoccupati. La loro efficacia dipende in parte dal fatto che comportano normalmente una qualche misura di stimolo fiscale. In tempi difficili, invece, è più problematico realizzare riforme della protezione dell’occupazione e dei sussidi di disoccupazione, perché queste possono indebolire ulteriormente la domanda e la crescita.
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