Dopo aver imposto a colpi di voti di fiducia la legge elettorale chiamata Italicum, improvvisamente Matteo Renzi e la sua coorte di governanti per caso si scoprono “disponibilissimi a cambiarla”. Magari non è nemmeno vero, ma devono almeno far finta di esserlo.
Il caso è notevole non solo sul piano della coerenza di un gruppo di potere – se quel che un anno fa era "il massimo della modernizzazione" ora può essere buttato nello scarico senza problemi, c'è qualcosa che non funziona – ma soprattutto su quello degli scenari a breve termine. Che sono poi gli unici che interessano alla coorte e soprattutto a quelli che “li hanno messi lì” (Marchionne dixit).
In un paese dove la Carta costituzionale viene trattata come un impiccio idealistico difficile da mandare in soffitta (non è mai stata applicata per intero, tantomeno la sua prima parte), la legge elettorale cambiabile a maggioranza semplice è stata spesso il modo più veloce per trasformare la “costituzione materiale”, restringendo progressivamente la rappresentatività del Parlamento rispetto al paese. Tutto in nome della “governabilità”, dell'”efficienza”, della “rapidità” della decisione politica.
Da questo punto di vista l'Italicum è veramente il massimo sperabile, appena un pelo meno del voto censitario o della dittatura. Un sistema a doppio turno in cui chiunque si piazzi ai primi due posti in prima battuta può diventare padrone del paese, anche prendendo magari il 20% dei voti (ossia all'incirca il 10% degli aventi diritto); e che assicura ai comitati elettorali il controllo pressoché assoluto sugli eletti, predeterminati al momento della formazione delle liste.
In combinato disposto con la controriforma costituzionale si andrebbe a realizzare un dispositivo istituzionale che anche Licio Gelli avrebbe probabilmente benedetto con un “troppa grazia, sant'antonio!”.
Ma la Costituzione formale nata dalla Resistenza, pur azzoppata e pesantemente intaccata (dal Pd, quando ancora comandavano Prodi e D'Alema!), ancora esiste e agisce. E dunque tutti guardano con apprensione al 4 ottobre, quando la Corte Costituzionale dovrà esaminare l'Italicum per verificare se esistano o meno – come si dice – profili di incostituzionalità. A presentare ricorso alla Consulta, peraltro, non erano stati i partiti dell'opposizione vera o finta, ma due tribunali, Messina e Torino, con una ricca dotazione di argomenti.
Si sa che l'Italicum ha ripreso e ampliato proprio i due punti su cui la Consulta aveva giudicato incostituzionale la legge elettorale precedente, il porcellum partorito dalla fervida mente di Calderoli & co.: abnorme premio alla maggioranza e candidati predeterminati, non scelti dagli elettori. Entrambi i punti, insomma, annullano le possibilità di scelta e restringono in modo eccessivo-autoritario la rappresentanza politica a due soli "partiti". Un suicidio, oltretutto, in un sistema di fatto tripolare, che implicitamente assicura al ballottaggio la convergenza di secondo e terzo contro il primo.
Rilievi sollevati appunto dai due tribunali ricorrenti, e che mettono sulla graticola proprio il “premio di maggioranza” assegnato al partito che supera il 40% al primo turno o che vince al ballottaggio. Senza una "soglia critica di consensi" per accedere al secondo turno (oltre il 30%, per esempio), il premio non garantisce "l'effettiva valenza rappresentativa del corpo elettorale". In un sistema di rappresentanza frammentatissimo, infatti, sarebbe teoricamente possibile che qualcuno arrivi “primo” con una percentuale irrisoria.
In secondo luogo, l'esplicito “divieto di apparentamento” tra liste diverse tra il primo e il secondo turno – se pure sembra favorire il “non patteggiamento” tra programmi elettorali diversi, considerato un modo per rallentare o paralizzare l'azione di governo – appare decisamente irrazionale rispetto allo scopo (costituzionalmente dovuto) di assicurare un Parlamento che sia anche rappresentativo dell'opinione prevalente nel paese. Governabilità e rappresentatività viaggiano su binari e con orari diversi. E l'attuale Costituzione non consente di scegliere la prima, come pure piacerebbe a Goldman Sachs e a tutte le imprese multinazionali.
Dunque, visto che la sentenza del 2014 fa da autorevole precedente, sembra logico attendersi che a ridosso del 4 ottobre anche questa legge elettorale venga bocciata in tutto o in parti sostanziali. E certo non mancano i memebri della Consulta nominati dal Parlamento che possono riferire in privata sede degli orientamenti esistenti nella corte (non pensate subito a Giuliano Amato, ce ne sono anche altri!).
Insomma: il governo Renzi e i sui committenti sono perfettamente consapevoli che l'Italicum finirà nella spazzatura, quindi si portano avanti con il lavoro dichiarandosi pronti a discutere un'altra legge elettorale. Anche a costo di fare una figura miserabile (non è mai stata cambiata una legge elettorale prima ancora di metterla alla prova), che dimostra anche ai ciechi l'incompetenza istituzionale di questi “personaggetti”.
Il problema è che i tempi sono ormai maledettamente stretti. Il referendum va fatto – per obbligo costituzionale, anche qui – prima di Natale. E non sembra che la cosiddetta “maggioranza di governo” possa reggere una discussione che va a incidere sulle possibilità o meno, per l'attuale ceto politico-parlamentare, di restare in sella. E arrivarci con sulle spalle un'altra bocciatura della Consulta sarebbe il modo migliore per assaporare la sconfitta.
Se la controriforma Boschi-Renzi dovesse però finire bocciata dagli elettori – cosa che appare oggi possibile, contrariamente a un anno fa – Renzi sarebbe così “azzoppato” da non poter evitare le dimissioni. Se non altro perché la sua “maggioranza” si sfalderebbe all'istante, con tanti manipoli in fuga verso una configurazione diversa. E sarebbe complicato anche andare a nuove elezioni, visto che la legge utilizzabile allo scopo resta per il momento il vecchio mattarellum.
Anche saldandosi alla poltrona di Palazzo Chigi, comunque, con una diversa legge elettorale dovrebbe cambiare completamente strategia rispetto a quanto previsto fin qui (un solo partito al comando, al servizio di un gruppo selezionato fuori dai circuiti della politica nazionale), tornando alle “vecchie” e consolidate prassi concertative tipiche dei governi di coalizione. Qualcosa che proprio non piace in primo lugo all'Unione Europea, che pretende da ogni paese governi certi per almeno cinque anni, e non litigiose combriccole di specialisti in “assalti alla diligenza” della spesa pubblica.
Il cortocircuito è evidente, e la paralisi del potere probabile. Vero è che i giudici della Consulta – ragionando politicamente, cosa che non dovrebbe nemmeno sfiorarli – potrebbero portare la sentenza alle lunghe, dando così modo all'esecutivo di arrivare senza altri handicap alla scadenza referendaria. Ma se dovessero scegliere questa strada, anche a prescindere dal merito della sentenza che emettranno, si dimostrerebbe che anche la Corte Costituzionale non è più un “organo di garanzia”.
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