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Sondaggisti e media. La fine ingloriosa del “meno peggio”

Nella notte di Trump molte certezze sono crollate. Il “menopeggismo” ha perso la sua più importante battaglia e, anche se resterà su piazza per altre tornate (attendiamo pazientemente il possibile ballottaggio francese tra la fascista Le Pen e uno qualsiasi), farà fatica ad avere la stessa presa di prima.

Anche il sistema dei media e i sondaggisti escono a pezzi da questa notte. I sondaggisti principali degli Stati Uniti – società quotate in borsa, non gruppetti di amici che intervistano se stessi – dovrenno probabilmente chiudere baracca e mettere le loro cose negli scatoloni, come si usa laggiù. In Italia, invece, gli imprenditori falliti (e anche i sondaggisti lo sono) continuano a fare lo stesso mestiere, come se il non azzeccarne una fosse la parte centrale del loro business (un po' come le costruzioni antisismiche che crollano non impediscono ai costruttori di andare avanti…).

I media, invece, si sono universalmente confermati macchine di propaganda, non più organi di informazione. E questo negli Usa come in Italia.

Prendiamo un solo esempio, per non cadere nel generico.

Abbiamo visto una parte della trasmissione tv Dimartedì, su La7, condotta da Giovanni Floris. E ad un certo punto abbiamo potuto tutti assistere a una scena quasi paradigmatica. In tre – lo stesso Floris, l'ex inviato Rai a Londra, Maurizio Caprarica e l'ex conduttore di Ballarò, Massimo Giannini – cercavano di indurre il pentastellato Luigi Di Maio a dichiarare una preferenza qualsiasi tra Trump e Clinton, o almeno tra Theresa May e Jeremy Corbyn (Di Maio parlava da Londra). Insomma a schierarsi con una delle “due grandi famiglie politiche dell'Occidente”.

Il giovane Di Maio ha la duttilità ostinata di un vecchio demcristiano, che nel tentativo – riuscito – di sottrarsi all'obbligo è arrivato a pronunciare ovvietà memorabili (tipo: “chiunque vinca lo riconosceremo come presidente degli stati Uniti”, come se il M5S o chiunque altro avesse possibilità di scelte diverse).

I suoi tre intervistatori, infatti, escludevano per principio qualsiasi alternativa diversa da quella da loro stessi proposta: Trump o Hillary, May o Corbyn (potremmo andare avanti a lungo, girando il mondo). Della serie: le carte le diamo noi, il gioco è questo e qui dentro chiunque – i Cinque Stelle come chiunque altro – deve muoversi. Chiunque provi ad avanzare una visione diversa sta solo “facendo il vago”, “giocando con l'ambiguità”, ecc.

Un gioco truccato. E anche sfacciatamente. Un giornalista, anche alle prime armi, dovrebbe chiedersi e chiedere all'interivistato quale sia la sua (per principio "altra") visione delle cose, non restringere le possibilità al banale “sì o no”.

Il giovane Di Maio, nel tentativo di farsi capire, dopo aver dovuto ammettere che “l'onestà è solo un prerequisito necessario” di qualsiasi personalità politica, una sua ideuzza l'ha pure accennata: basta con destra e sinistra, con gli imprenditori contrapposti ai lavoratori e viceversa, ma tutti insieme per far progredire il paese…

Vecchio corporativismo, certamente. Niente di nuovo e tantomeno di progressivo. Che getterebbe una pessima luce sull'intero M5S, se questa fosse la convinzione dell'insieme (ma qual'è la convinzione "egemone", lì dentro?). Ma comunque una “visione diversa” che dovrebbe spingere un giornalista – specie se di fede genericamente democratica (che ovviamente non vuol dire “del Pd”) – ad approfondire e caso mai demolire. E invece nulla: “sì, vabbeh, ma lei sta con questo o con quello”? Pensiero binario, monodimensionale.

Con nessuno dei due, ripetiamo anche noi da sempre. Perché ci sforziamo di costruire una “visione” della crisi del sistema capitalistico che ci aiuti a orizzontarci nel buio fitto che invece acceca quanti proprio non hanno voluto vedere la tempesta che saliva, perferendo gingillarsi in esorcismi (“uno così non può esser preso sul serio”, proprio come avevano già fatto con Berlusconi oltre 20 anni fa…) mascherata da "informazione imparziale". Propaganda di sistema, null'altro.

Questo sistema però è a pezzi e Trump ne è la dimostrazione; non – ovviamente – la cura. Così come Killary Clinton sarebbe stata un'altra dose della stessa droga, per rinviare di qualche tempo la presa d'atto.

Ora, cari “colleghi” mainstream, sarete anche voi costretti a uscire – almeno col pensiero – dalla gabbietta mentale binaria che avete infilato a forza nella vostra testa e poi in quella del “pubblico pagante”.

O forse siamo troppo ottimisti. Tra qualche giorno cercherete di sorprenderci, ne siamo certi. Ci metterete un po', dovrete elaborare il lutto, attendere uove disposizione e infine turarvi il naso e l'intelligenza, e perfino il buon gusto. Ma alla fine ci direte – e lo direte voi, non noi – che c'è qualcosa di positivo in Trump.

Scommettiamo?

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