Il secondo “decreto Minniti”, quello sull’immigrazione, è un salto di qualità pari soltanto al primo decreto dell’identico ministro (sul "decoro e l'ordine pubblico"), e ispirato alla stessa filosofia: le persone sono nulla, i diritti sono una concessione arbitraria, la difesa legale va abolita. O comunque ridotta al minimo.
Ieri la Camera ha dato il via libera a questa abiezione, approvandola in via definitiva e dunque dandole l’aura della “legge”. Un po’ come le leggi razziali, che definivano una sfera giudiziaria a parte per i “non ariani”.
La novità giuridica più grande di questa “legge” è infatti la soppressione di un grado di giudizio per quanto riguarda i ricorsi presentati da migranti. Il caso tipico è quello della richiesta di asilo o di soggiorno. Quando scatta il “niet” dell’autorità di polizia si può ricorrere alla magistratura, ma scompare il grado di Appello. In teoria resta la Cassazione, che però si occupa solo di verificare la legalità formale degli atti che hanno portato al rifiuto. Dunque, non entrando nel merito, basterà mettere tutti i timbri al posto giusto per rendere anche questo grado di giudizio inoffensivo.
Tutto il resto è banale incremento delle procedure di identificazione ed espulsione, potenziamento delle forze di polizia e “efficienza” del meccanismo selettivo.
Vengono istituite – presso ognuna delle 26 Corti d’appello – sezioni specializzate "in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea". Dovranno occuparsi di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno per cittadni dell’Unione Europea sul territorio nazionale, nonché dell’eventuale impugnazione del provvedimento di allontanamento per motivi di pubblica sicurezza (sempre nei confronti di cittadini comunitari ma sgraditi).
Più ampia la casistica riguardante gli extracomunitari. Le sezioni si occuperanno infatti di riconoscimento o meno del diritto alla protezione internazionale; di mancato rilascio, rinnovo o revoca del permesso di soggiorno per motivi umanitari; di approvazione o orfiuto del nulla osta al ricongiungimento familiare o del permesso di soggiorno per motivi familiari; di accertamento dello stato di apolidia e accertamento dello stato di cittadinanza italiana.
Ed è qui che si eserciterà il massimo dello sforzo perché le “misure per la semplificazione e l'efficienza delle procedure davanti alle commissioni territoriali” trovino applicazione in tempi brevi, approvando un “nuovo modello processuale” che permette di ridurre a soli quattro mesi il procedimento che si conclude "con decreto che rigetta il ricorso" o "riconosce lo status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria". Soli 30 giorni per ricorrere in Cassazione, poi raus!
Le stesse “commissioni territoriali” vengono potenziate con 250 assunzioni, in modo da sveltire le procedure di fronte al prevedibile aumento delle richieste, conseguenza di fermi più frequenti nelle strade di persone “dall’aspetto straniero”.
Sparisce la parola Cie, entrata ormai nel lessico come sinonimo di lager, ma restano le strutture, che assumono il nome di Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio, di modo che sia chiaro l’esito…). Anzi, aumentano di numero per applicare la scelta politica di avere strutture più piccole (100-150 “ospiti temporanei”), distribuite su tutto il territorio nazionale.
Ogni migrante fermato – dopo uno sbarco o in mezzo a una strada – verrà portato presso presso appositi "punti di crisi" dove dovranno esser fotografati, identificati con impronte digitali. L’evetuale rifiuto del migrante a questo tipo di identificazione sarà equiparato al “pericolo di fuga” e dunque giustificherà la reclusione nei centri Cpr.
Esplicitamente prevista infine la possibilità di impiegare i fermati in “lavori socialmente utili”, ricorrendo a fondi europei e coinvolgendo le imprese del cosiddetto “terzo settore” (chissà come sarà triste Salvatore Buzzi, nel vedersi temporaneamente escluso dalla possibilità di utilizzare questa normativa…).
Foto di Patrizia Cortellessa
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