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Il boom delle disuguaglianze produce coscienza di classe? Sabato se ne discute a Roma

Sabato 20 maggio a Roma, si discuterà in un forum di quale sia oggi il potenziale blocco sociale antagonista, di quanto esso sia influenzato o influenzabile da quelli che vengono sbrigativamente liquidati come “populismi” e di come i comunisti – il famoso “fattore K” che ha segnato un epoca – possano interagire con esso sul piano dell’organizzazione e della coscienza di classe nel XXI Secolo. Il forum è organizzato dalla Rete dei Comunisti che ha chiamato al confronto sia studiosi della materia che esponenti di organizzazioni e collettivi politici che non hanno abdicato all’opzione comunista come alternativa alle contraddizioni di un sistema capitalista che sembra aver esaurito la sua spinta “progressiva” e innescato quella “regressiva” sul piano sociale. In tal senso è interessante, anche per poter ragionare su dati e non su congetture o liturgie, la pubblicazione avvenuta oggi del Rapporto Annuale dell’Istat 2017.

Il Rapporto dell'Istat radiografa, su base statistica, la situazione della società italiana, ma azzarda anche a definirne i connotati e le modificazioni delle classi sociali. Secondo il rapporto le disuguaglianze sociali sono aumentate ma secondo l’istituto più a causa della distribuzione dei redditi che della ricchezza. Un modo piuttosto algido per mettere le rendite da pensione nel conto, più o meno come le rendite da capitale (finanziario o immobiliare), il che è tutta un’altra storia. Le disuguaglianze in Italia, secondo l’Istat, si spiegano soprattutto con il reddito e – diversamente da altri paesi europei, soprattutto quelli del nord, con la mancanza di meccanismi di redistribuzione adeguati. I redditi da lavoro, spiega l'Istat, spiegano il 64% delle disuguaglianze, però una parte è determinata dai redditi da capitale, non sono solo redditi da lavoro. Le pensioni contribuiscono al 20% della disuguaglianza, e si tratta di un dato in forte crescita dal 2008, anche per via dell'invecchiamento della popolazione (nel 2008 la percentuale si fermava al 12%).
Un ruolo importante viene svolto da quella che potremmo definire la perdita dell’identità di classe, un fattore decisivo per avere coscienza dei propri interessi. "La perdita del senso di appartenenza a una certa classe sociale è più forte per la piccola borghesia e la classe operaia", osserva l'Istat. L'istituto però non si limita a prendere atto della disgregazione dei gruppi tradizionali della società italiana, ma ne propone una ricostruzione originale, che suddivide la popolazione (stranieri compresi) in nove nuovi gruppi: i giovani blue-collar e le famiglie a basso reddito, di soli italiani o con stranieri, gruppi nei quali è confluita quella che un tempo era la classe operaia; le famiglie di impiegati, di operai in pensione e le famiglie tradizionali della provincia, nei quali confluisce invece la piccola borghesia; un gruppo a basso reddito di anziane sole (le donne vivono di più rispetto agli uomini) e di giovani disoccupati; e infine le pensioni d'argento e la classe dirigente. In questa classificazione incidono vari fattori, il più importante è il reddito, che viene valutato in termini di spesa media mensile: si va dai 1.697 euro delle famiglie a basso reddito con stranieri, agli oltre 3.000 delle famiglie di impiegati e delle pensioni d'argento, fino alla classe dirigente che supera di poco i 3.800 euro mensili.
Dentro la società italiana da tempo risulta bloccato qualunque tipo di ascensore sociale, quindi la pretesa del sistema capitalista di indicare continuamente una prospettiva progressiva sta regredendo vertiginosamente. Anzi sembra funzionare solo quello verso il basso, mentre i piani alti sono sempre meno accessibili. Salgono invece sia l’indicatore di deprivazione materiale che le famiglie a rischio di povertà ed esclusione sociale: il 28,7% della popolazione. Una quota che quasi raddoppia nelle famiglie con almeno un  cittadino straniero.
L'impoverimento di una parte consistente della popolazione, secondo l’Istat, dipende soprattutto dall’ occupazione nelle professioni non qualificate (l'aumento su base annua è del 2,1%). Diminuiscono operai e artigiani (meno 0,5%). Cresce moltissimo il lavoro part-time, mentre quello in somministrazione aumenta del 6,4% su base annua. Di fatto è ancora il lavoro a determinare l'appartenenza alle "nuove" classi sociali.

Dunque qual’è il blocco sociale antagonista che nel XXI Secolo può puntare a rovesciare l’esistente? Il tritacarne che riorganizzazione produttiva e smantellamento del welfare hanno imposto alla classe, può produrre sul piano politico solo una contrapposizione tra “alto e basso” declinata genericamente come populismo o può rimettere in moto un ciclo di lotta di classe dal basso contro l’altro? E i comunisti dentro questa possibilità hanno ancora soluzioni da proporre o possono rimanere solo testimonianza di un modello che ha prodotto risultati ma non li ha saputi difendere e riprodurre nel tempo? Quella di sabato 20 maggio è una discussione utile, anzi necessaria.

 

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