Mentre la guerra avanza nel mondo alle nostre porte, qui ci si azzanna per questioni apparentemente secondarie, ma che mostrano chiaramente quanto la civiltà giuridica liberaldemocratica sia ormai un corpo estraneo anche nella testa di quanti credono di essere “civili e di sinistra”. L’occasone è stata fornnita da uno dei nomi più ignobili della storia italiana recente – Totò Riina – e dalla discussione tra Corte di Cassazione e Tribunale di Sorveglianza di Bologna. Tema: in quali condizioni deve morire un detenuto di 86 anni?
Radio Città Aperta ha sentito Susanna Marietti, dell’associazione Antigone.
Ciao Susanna, buongiorno.
Buongiorno a voi e a tutti gli ascoltatori.
Grazie della tua disponibilità innanzitutto. Il tema è abbastanza delicato e controverso. Si è aperto un dibattito intollerabile dal punto di vista dei contenuti, per molti versi come purtroppo spesso capita in questo paese ultimamente. Parliamo della possibilità di scarcerazione o attenuazione del regime carcerario a cui è sottoposto Totò Riina, uno dei capi di Cosa Nostra, per garantirgli “una morte dignitosa” rispetto alle sue attuali condizioni medico sanitarie. C’è chi parla del fatto che le sue vittime non hanno potuto avere quella dignitosa morte che lo Stato potrebbe riservargli; c’è chi ha parlato di uno Stato di diritto e una legge che determina delle condizioni precise in questi casi; c’è chi l’ha buttata sulla demagogia, il sentimentalismo… Insomma un po’ di tutto, amplificato dal calderone dei social network. Cerchiamo un attimo di capire meglio di cosa stiamo parlando e facciamolo ragionando su tutti gli aspetti della questione, su quello che prevede o dovrebbe prevedere la legislazione italiana in questi casi.
Allora… Raccontiamo brevissimamente i fatti per gli ascoltatori. L’avvocato di Totò Riina ha chiesto al tribunale di sorveglianza di Bologna che il suo assistito potesse avere un differimento della pena; vale a dire ci sono alcuni casi – tra cui appunto l’incompatibilità con la salute o la donna in gravidanza – che permettono al giudice di sospendere l’esecuzione della pena. Significa che il condannato non la sconta adesso, la sconta magari fra un anno o quando sarà; è una sospensione temporanea. L’avvocato aveva detto: se non volete sospendere la pena a Riina, quanto meno dategli la detenzione domiciliare, in subordine. Il tribunale di sorveglianza di Bologna ha valutato che il fatto che Riina fosse visitabile dai medici che operano all’interno del carcere, unito al fatto che qualora ci fosse un’urgenza poteva venire ricoverato in un ospedale esterno, cosa che già era successa, presso l’ospedale di Parma; queste due circostanze combinate erano oer il tribunale sufficienti a dire che la salute di Riina è compatibile con il regime penitenziario. La Corte di Cassazione ha invitato il tribunale di sorveglianza a rivedere la sua posizione sostanzialmente dicendo: Totò Riina non ha solo un corpo fisico, per cui – secondo il vostro ragionamento – la malattia è conciliabile con il regime detentivo; Totò Riina ha anche una dignità. E quindi ha diritto a morire dignitosamente. Questa è la cosa che ha scatenato le polemiche. Totò Riina, in quanto efferato boss di Cosa Nostra, non doveva più avere una dignità. La Corte di cassazione invece ha sostenuto di sì.
E questa è già una ricostruzione basata un po’ sui fatti. La nostra impressione è che da un lato il personaggio, la sua storia, sia molto particolare. Dall’altro, però, c’è una legislazione, una serie di organi che applicano una legge. E’ giusto questo?
Ovviamente. Quello che dico è: i diritti umani o sono universali o non sono. I diritti umani valgono per tutti. E’ facile difendere i diritti delle persone più brave, quello è facile; oppure anche quelli dei piccoli criminali con cui tuttavia però ci identifichiamo: aveva fame ha e rubato una mela. Qui è facile difendere i loro diritti. La prova del sistema dei diritti umani che parte dalla dichiarazione universale del ’48 sta su Totò Riina. Bisogna difendere il diritto di morire dignitosamente pure di Totò Riina. Questo è difficile da fare, perché ognuno di noi poi ha un moto di ripulsa; ma la nostra ragione deve essere superiore alla nostra pancia e quindi diciamo che anche Totò Riina dovrebbe morire a casa sua dignitosamente. Questo non farà male a nessuno, perché è evidente che Totò Riina non ha più alcun potere dentro Cosa Nostra e che non è più in grado, vista la sua condizione fisica, di impartire ordini o di fare del male.
Questo è uno degli argomenti che hanno creato più confusione e scontro. Per alcuni, invece, può ancora avere un ruolo attivo all’interno di Cosa Nostra, e citano le minacce al giudice Di Matteo, ad esempio, o a Don Ciotti, di qualche anno fa. Su questo mi sembra che tu abbia le idee abbastanza chiare, invece. Ormai la sua nocività, la sua pericolosità sociale potrebbe essersi quasi completamente abbattuta?
Da come viene descritta anche dalle perizie mediche, io direi senz’altro di sì. I fatti che tu racconti risalgono, appunto, ad alcuni anni fa. Detto questo, se anche non dovesse essere così, abbiamo delle forze dell’ordine, abbiamo degli organismi preposti a questo; quindi se andrà a morire a casa sua, andrà in una situazione tale per cui ci saranno delle misure di sicurezza che faranno sì che non mandi fuori alcun ordine. Voglio dire… Non è che esiste solamente il muro di cinta del carcere.
Questo è un ragionamento importante, perché sembra quasi che metterlo fuori dal carcere equivalga a rimetterlo in libertà. Non stiamo parlando di questo, stiamo parlando di altri profili di gestione della detenzione – correggimi se sbaglio – che però prevedono sempre un controllo da parte dello Stato, no? Non è che viene lasciato libero dicendo: sei a posto con la legge, vai dove credi…
Questo sarà il Tribunale a valutarlo, perché in realtà l’avvocato, in prima battuta, aveva chiesto il differimento della pena. Il differimento della pena – ripeto – significa che tu in quel momento non la stai scontando la pena; la detenzione domiciliare, invece, è una forma di detenzione per quanto non carceraria. L’avvocato l’ha chiesta in seconda battuta, dicendo: se non volete dare il differimento, datemi la detenzione domiciliare. Se mai il tribunale opterà per il differimento pena, immagino che comunque metterà delle misure di sicurezza, anche se non è pena scontata. E comunque opterà per quella soluzione solamente se veramente Riina è ridotto in fin di vita e quindi si tratta di andare a passare gli ultimi 20 giorni sul letto di casa sua invece che su quello della cella. Altrimenti opterà per un regime differente.
Bene. Come pensi che vada poi a concludersi questa vicenda? Poi ci saranno i commenti dei parenti delle vittime che comunque hanno un peso anche storico in questo paese. Sarà possibile che questa vicenda venga gestita come in un paese normale, oppure il carico emotivo condizionerà le eventuali decisioni successive? Che tipo di impressione hai?
Questo è ovviamente è difficile dirlo perché sarà nella discrezionalità dei giudici. Io penso che non possano ignorare un monito della suprema Corte, quindi in qualche misura dovranno rivedere la loro decisione. Dopo di che i giudici di sorveglianza hanno una paura proprio ancestrale di emettere ordinanze di apertura perché appunto, come dicevi adesso, poi si scatena la parola alle vittime… Io ho tutta la solidarietà del mondo con le vittime, ma non è il loro ruolo quello di entrare in decisioni di tipo giuridico; perché è ovvio che loro parlano con la pancia e non con la ragione. Il diritto non si fa con la pancia. Quindi il magistrato di sorveglianza è una figura che per tradizione – dal dare una semilibertà, un affidamento in prova ai servizi sociali, a prendere una decisione come questa che è particolarmente epocale – ha paura. Detto questo, nel caso specifico sarà difficile ignorare il monito della Corte di Cassazione… Staremo a vedere. Io credo che prenderanno una misura di apertura ma con moderazione, per evitare l’alzata di scudi.
Una battuta per concludere, Susanna. Siamo in un paese, come anche il recente rapporto di Antigone ha ribadito, in cui l’emergenza carceri non finisce mai. Un paese in cui la detenzione, molto spesso, è un’esperienza umiliante per chi la subisce, un paese che non riesce ad applicare a pieno la normativa prevista per tutta la gestione carceraria…Si parla di carcere e di gestione del carcere soltanto in pochi casi. Questo è uno di quelli. Io ne so poco, di carceri; però da quel poco che so mi si accappona un po’ la pelle rispetto al fatto che un dibattito così complesso venga gestito soltanto per questioni, appunto, di pancia…
Purtroppo sì. Sono totalmente d’accordo con quello che dici. Noi veniamo da alcuni anni, da un periodo che aveva fatto ben sperare. C’era stata un’attenzione verso le nostre carceri che mai si era riscontrata dal dopoguerra in poi, o quantomeno dalla riforma del ’75. Un’attenzione dovuta al gennaio 2010, con la dichiarazione dell’emergenza penitenziaria per il sovraffollamento; poi nel 2013, con la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per violazione dell’art. 3, che è uno degli articoli fondamentali della Convenzione europea sui diritti dell’uomo in relazione al sovraffollamento carcerario. Con Giorgio Napolitano, che per la prima volta dà un messaggio alle Camere e lo dà sul carcere. Per la prima volta i giornali parlavano di carcere non con il trafiletto in ottava pagina ma, addirittura, in apertura; e quindi le persone avevano preso consapevolezza e le autorità italiane avevano adottato una serie di misure riformatrici che avevano fatto del bene al nostro carcere. Dopo di che, finito l’effetto di questi tre fattori che in qualche modo ho raccontato, abbassato lo sguardo del Consiglio d’Europa sull’Italia perché bene o male aveva adempiuto a quello che la sentenza Torreggiani gli aveva detto di fare, siamo tornati nell’indifferenza; e quindi di nuovo il carcere fa notizia solamente quando c’è qualcosa di eclatante, come quello di ieri o quando, sotto elezioni, si può dire: ci vuole più sicurezza, buttiamo la chiave o cose di questo tipo.
Bene Susanna, grazie del tuo intervento. Buon lavoro e buona giornata
Grazie a voi. Buon lavoro e buona giornata a voi.
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Olino Sciarada
Note a margine di questo dibattito.
Né il regime di carcere duro 41bis né l’art 4bis ordinamento penitenziario (che rende ostativi i reati e al comma primo li esclude da ogni misura alternativa in assenza di “collaborazione”) riguardano l’efferatezza del reato. Si tratta di classificazione per tipologia (ad es. mafia, terrorismo ecc.). Se dunque il reo ha avuto un ruolo del tutto secondario (che normalmente potrebbe essere un favoreggiamento) ma pesa su di lui il reato associativo (che esiste solo in Italia e spesso viene usato a sproposito) può prendere il massimo della pena, o comunque una condanna ostativa privata cioè della possibilità di misure alternative e di quanto stabilisce l’art.27 della Costituzione. L’art 4bis fu appesantito dopo 11 settembre 2001 e grazie ad esso ad esempio i condannati per sovversione per reati a partire dal 2001, i prigionieri politici, sono esclusi dalle misure alternative. Non c’è un nesso con l’efferatezza, il reo può essere condannato in quanto “associato” e non aver avuto alcun ruolo in fatti eclatanti o specifici. In questa ottica invece il “collaboratore” anche se ha preso parte a terribili azioni di sangue in pochi mesi sarà libero. Dov’è la giustizia? E in tal caso non si ascoltano le vittime. L’autore invece di un terribile crimine di tipo privato, al di fuori di una dimensione associativa, è ammesso alle misure alternative (dopo metà pena, 2/3 di pena ecc.) e dopo un certo numero di anni inizia a vedere la luce (anche se i familiari della vittima non ne saranno felici).
Il carcere duro serve solo per costruire collaboratori addomesticati o portarti all’annientamento e alla morte, è tortura e non serve ad indebolire il potere delle organizzazioni criminali perché non ammette un futuro diverso, un percorso cosi come indicato dall’art.27 della Costituzione, il più inapplicato assieme all’art.3.
Roberto Angelone
Alla redazione: quale credibilità e spazio dareste ad una associazione finanziata da Soros?
Roberto Angelone
Scusate il refuso