Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l’urgenza della proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l’assalto soverchiante di tutti quelli che: “mamma mia come superiamo il 5%? “
Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte.
Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.
Si parte dalla Costituzione, anzi dalla sua anima sociale e antiliberista affermata meravigliosamente dall’articolo 3, e si sostiene che si deve prima di tutto rispondere a quel popolo di sinistra che in nome di quell’anima ha votato NO il 4 dicembre. Benissimo, questo però significa esplicitare subito alcune discriminanti. Prima di tutto non possono essere interlocutori di questa proposta coloro che hanno votato SÌ, per capirci sono fuori Giuliano Pisapia e Romano Prodi. Il problema si pone però anche verso chi ha votato NO, ma prima ha sostenuto il Jobsact, la legge Fornero e soprattutto quella mina ad orologeria contro i principi sociali della Costituzione, quale è il nuovo articolo 81 che obbliga al pareggio di bilancio in ottemperanza al mostruoso Fiscal Compact.
Durante il governo Monti il parlamento quasi unanime ha costituzionalizzato quella austerità che giustamente Falcone e Montanari vogliono rovesciare. E se non sono solo buoni propositi, la rottura con l’austerità significa soppressione immediata delle misure che emblematicamente la realizzano. Chi le ha votate naturalmente può ammettere di essersi sbagliato e sostenere un programma che proponga di cancellare quelle misure, ma lo deve fare con rigore e sofferenza e non per furbizia.
Jeremy Corbyn ha riconquistato fiducia nel mondo del lavoro, dopo essere stato svillaneggiato dalle sinistre liberali e dai loro mass media, accettando il voto sulla Brexit e proponendo un programma secco di nazionalizzazioni. Questa parola da noi è tabù nei sindacati confederali e anche in buona parte della sinistra più radicale, eppure è proprio sul terreno delle privatizzazioni che si gioca la possibilità di arrestare e veder dilagare ancora le politiche economiche liberiste.
Alitalia e Ilva sono i primi banchi di prova, poi seguiranno le Poste, le Ferrovie, Enel ed Eni e naturalmente ciò che resta del sistema bancario. O torna l’intervento pubblico diretto nell’economia, o da noi va tutto in mano alle multinazionali, visto che la grande borghesia italiana non esiste più come classe autonoma dai poteri della globalizzazione. O il pubblico, o si e si svende ciò che resta del paese, questa è l’alternativa reale oggi e che scelta fa al riguardo la sinistra prefigurata da Falcone e Montanari?
Lavoro con diritti, scuola pubblica e stato sociale, ambiente, territorio e beni comuni sono dichiaratamente al centro della proposta di nuova sinistra. Anche qui possiamo solo dire giustissimo, ma dobbiamo però aggiungere: che misure concrete si vogliono subito attuare, che leggi si vogliono cancellare, che nuovi atti si vogliono varare? Naturalmente ci sono programmi decennali da individuare, ma il buongiorno si vede dal mattino, ad esempio dall’impegno a cancellare tutta la buona scuola e la controriforma della sanità, a quello a fermare tutte le grandi opere, a partire dalla famigerata Tav in Valle Susa. Non è solo questo che basta, ma è questo che serve per capire se si vuol fare sul serio.
Il bilancio delle spese militari dello stato italiano è in continua ascesa e Gentiloni si è impegnato quasi a raddoppiarlo per raggiungere quel 2% del PIL posto dagli accordi NATO. Si ribalta questa scelta nel suo opposto con il taglio delle spese ed il ritiro dalle missioni all’estero, o ci si accontenta di partecipare alla sfilata del 2 giugno con la spilla della pace? Anche qui le scelte programmatiche, che Falcone e Montanari pongono giustamente come discriminanti, se sono vere individuano già di che pasta e di quali persone dovrebbe essere composta la nuova sinistra.
Che alla fine dovrà misurarsi con la questione di fondo: le politiche del lavoro, dell’ambiente e dello stato sociale, in alternativa alla austerità e alle spese di guerra, sono realizzabili accettando i vincoli UE e NATO? Noi che abbiamo costituito Eurostop pensiamo di no, che senza la rottura con quelle istituzioni nulla di buono sia possibile per i poveri e gli sfruttati. Noi pensiamo così, ma siamo disposti ad accettare la sfida di chi invece pensa che quelle istituzioni siano positivamente riformabili. Chi crede a questo però deve essere disposto a rompere se poi dovesse verificare che il suo programm posto è posto all’indice proprio da quelle istituzioni. E deve dirlo.
Chi ha votato NO il 4 dicembre non può dimenticare che tutta la governance europea si era spesa per il SI. Né può ignorare che la Costituzione del 1948 e i trattati di Maastricht e Lisbona sono formalmente e concretamente incompatibili. Si può non volere la rottura con la UE nel programma, ma si deve essere disposti a farla se le istituzioni comunitarie quel programma ti impediscono di realizzarlo. Tsipras tra il rispetto del referendum popolare e quello dei diktat della Troika ha scelto il secondo. La sinistra proposta da Falcone e Montanari è disposta a fare la scelta esattamente opposta?
Siccome nel testo di Falcone e Montanari non ho trovato risposte chiare a domande per me decisive per capire cosa essi vogliano fare, mi sono permesso alcune di quelle domande di formularle io. Mi permetto di suggerire ai due estensori dell’appello di parlarne esplicitamente nell’assemblea del 18 giugno. Magari si affermi l’opposto di quanto scritto qui, ma per favore si faccia chiarezza. E non si parli d’altro per favore, sappiamo tutti che i nodi sono questi e non si sciolgono coprendoli di grandi valori e buoni propositi.
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andrea
Mi permetto di aggiungere una cosa a ciò che Cremaschi ha scritto: in questi anni difficili una parte della sinistra è stata in strada dentro il disagio sociale e la sofferenza che questo porta dietro e lo ha fatto in modo fattivo cioè organizzando lotte, occupazione delle case, difendendo spazi di socialità ecc. Questi compagni in carne ed ossa sono stati oggetto di rappresaglia da parte dello stato con ciò che ne consegue in termini di fogli di via, pestaggi ,arresti ed anni di galera spesso sotto lo sguardo sufficiente di tanta parte di quella sinistra che oggi invoca una unità , Questa situazione non piò essere esclusa da un patto politico che deve nascere nella chiarezza ed alla luce del sole.
Manlio Padovan
Non ho mai letto qualcosa di così esplicito, concreto e politico.
Lo stamperò per tenerlo ben presente.
Non ho mai capito perché non si faccia una legge che obblighi il partito che vince le elezioni a dichiarare prima delle elezioni il suo programma politico, senza possibilità di parole che dicono e non dicono. Mi pare l’unico modo per verificare sul campo e durante il governo cosa è statofaftto e cosa è stato promesso ma non mantenuto. Ma mi pare che qui nessuno ci senta.
Complimenti a Giorgio Cremaschi.
Manlio Padovan
Possiamo aggiungerci in modo non equivoco di definire il rapporto tra Stato italiano e CCAR o Stato della città del Vaticano? Cioè una clausola che salvaguardi in assoluto la assoluta laicità dello Stato e delle sue istituzioni?
Grazie.
Rino Malinconico
Trovo senz’altro suggestiva l’insistenza di molti/e sia sulla “coerenza programmatica” e sia sulla “pratica dal basso” dell’unità della sinistra antiliberista. A tali modalità di azione vengono bruscamente richiamati tutti coloro che vogliono l’uguaglianza e la solidarietà, e che si battono per il principio di cooperazione contro il principio di concorrenza. Non sia mai che l’unità provino a declinarla anche i piccoli partitini della sinistra che non possono vantare una ininterrotta contrapposizione al fu centrosinistra di una o due decine di anni fa (un’altra epoca, in sostanza)! E poi: o dal basso, o niente! Io non ci ho fatto caso, ma può essere benissimo che magari tali aspetti non fossero stati sufficientemente evidenziati nella lettera aperta di Falcone e Montanari, che indice l”assemblea nazionale di avvio del processo di unità per il prossimo 18 giugno a Roma. Registro, ad ogni modo, che l’intento principale di molti interventi è di richiamare gli altri – ed in particolare gli intellettuali, i militanti-dirigenti e gli intellettuali-militanti dei piccoli partitini di cui sopra – ad un salutare bagno di coerenza e umiltà (a me che sono di Rifondazione verrebbe da chiedere sconsolato: ancora?! ma è una reazione del tutto trascurabile, e infatti la metto subito da parte). È una richiesta sensata, tutto sommato. Mi permetto tuttavia di osservare che quando si usano parole impegnative come “scelta di classe”, “partire dal basso” e “umiltà”, non si dovrebbe poi partire dall’assolutezza del proprio “punto di vista”, non si dovrebbe cedere alla tentazione di parlare “per tutti” quelli che soffrono davvero (specie con un “davvero” che si presenti sempre in grassetto e sempre sottolineato). Mi pare che in troppi ci tengano a dire di essere “compagni di base”, “compagni impegnati sul concreto”, “compagni che vivono davvero (“davvero” sempre in grassetto, ovviamente) la sofferenza sociale”. E mi viene in mente che l”affermazione “io sono il più umile di tutti” – o altre simmetriche, del tipo “sono il più combattivo di tutti”, il “più antagonista di tutti”, il “più comunista di tutti” – rimangono pur sempre un ossimoro senza sbocco (e chiedo scusa per la parola non sufficientemente rozza)…
Francesco Baima
Di solito concordo pienamente con quello che scrive Cremaschi, ma in questo caso no, o perlomeno non del tutto.
I due “liberal” di cui si parla appartengono alla schiera di quelli che lo stesso Cremaschi definì, ai tempi della campagna referendaria, i “perbenisti del NO”, vista la loro riluttanza ad affrontare gli aspetti sociali ed economici della controriforma di Renzi.
Starei ad osservare senza farci coinvolgere e farei di tutto per sviluppare e strutturare Eurostop.
Quello che succede in altri Paesi dimostra che un movimento/partito di classe alternativo a questo sistema economico può nascere. Sta a noi innescare il processo senza perdere tempo con chi evidentemente non si pone questo obbiettivo.
Daniele
Falconer e Montanari a mio avviso non sono altro che poltronisti, la faccia perbene del PD.
Marco
Cremaschi tra le altre cose segnala l’ appartenenza alla Nato e alla UE e i comportamenti conseguenti nel riarmo e nei conflitti armati attuali. Altri in questi giorni hanno segnalato l’ assenza del tema Pace-Guerra-Spese militari dai testi di Falcone e Montanari o comunque l’ importanza del rifiuto della guerra e del taglio delle spese militari. I due pero’ anche nel comunicato che convoca al Brancaccio l’ assemblea del 18 giugno hanno completamente sorvolato sull’ argomento, come se dovessero occuparsi di elezioni locali e non di un paese di 60 milioni di abitanti, partecipante al G7, al G20, all’Unione Europea.
Giuseppe Ambrosi
Mi sembra che se si vuole costruire in breve tempo una forza politica che dal niente acquisisca grande consenso, sia molto importante studiare come questi fenomeni sono avvenuti quando sono avvenuti e perché alcuni acquisiscono grandi dimensioni e durevolezza mentre altri rimangono inefficaci, incapaci di creare opinione di massa veramente influente per modificare la società attraverso un salto della qualità culturale della cittadinanza.
Alla base della propaganda politica di coloro che aspirano a diventare una forza politica esiste senza dubbio lo strumento della promessa. I risvolti relazionali che derivano da una promessa sono molto complessi. Un approccio considerato di primaria importanza consiste nell’esprimere un progetto che dia la risposta creduta opportuna dalla maggioranza dei cittadini che quasi sempre corrisponde ai loro interessi. Ma la promessa dichiarata si presenta come quel multiforme aspetto che presiede al modo di porsi umano dell’individuo nelle relazioni. Il promittente espone il suo programma in modo diverso a seconda dell’interlocutore, può fornire informazioni molto simili ma modificare per esempio la promessa nei riguardi dei tempi d’inizio dell’esecuzione oppure dei tempi finali della realizzazione in modo da ricevere il consenso di parti che vogliono cose completamente diverse. Una divergenza di opinione che oggi appare fondamentale sta nel fatto di promettere a chi ha acquisito diritti reali (o privilegi) che li conserverà e a chi aspira ad averli che gli verranno concessi. Si sono rivelati vincenti in passato programmi politici nei quali rimane individuata una problematica aggregante che si rivolge contemporaneamente ai due bacini d’interesse prima considerati, cioè sia a quelli che vogliono conservare il proprio status che a chi aspira a migliorarlo. La parola d’ordine molto efficace rivolta alle popolazioni dei territori in condizioni generali migliori è: pensiamo a noi stessi e staremo meglio tutti. Si convincono facilmente anche coloro che là vivono peggio, dandone la colpa a chi vive altrove e preme per usufruire della ricchezza del loro territorio. Un’altra modalità recentemente molto vincente si riassume nello slogan: uno vale uno. È rimasta una promessa senza un vero programma di attuazione, ma la sua presa sull’opinione pubblica non perde vigore e molto probabilmente ciò consegue dal fatto che sono gli unici a dirlo e possono coprire con lo stesso tutte le proprie manchevolezze: “chi non è d’accordo su un particolare forse crede di valere più di noi che continuiamo a credere alla promessa?”.
Nella società attuale c’è una minoranza di cittadini che contano con continuità nel tempo ed altri ai quali si fa ritenere di contare eleggendo i propri rappresentanti nel momento delle votazioni e su questo formalismo ambiguo si gioca la competizione politica. I cittadini che contano con continuità nel tempo sono tutti quelli che godono di un potere che gli permette di potersi confrontare in modo privilegiato con gli altri, il loro potere fa da supporto alle loro relazioni e gli permette di modificare a proprio vantaggio i comportamenti degli altri: siano singoli cittadini o gruppi concorrenti o istituzioni dello stato o società contrapposte. Come si può dare agli altri cittadini un potere simile? I partiti nuovi si affermano come vincenti se non seguono l’andazzo dei precedenti misurandosi sulla marea degli interessi particolari per i quali chi detiene già un potere si trova in una situazione di chiaro vantaggio, ma propongono qualcosa quasi sempre di più generale che investe la grande parte dei cittadini ai quali si rivolge. La promessa riguarda sempre il concetto fondamentale di metterli in condizione di avere un potere di contare con continuità nel tempo. A tale riguardo riscontro che le difficoltà in cui si trovano gli stati democratici fondati sulla rappresentanza degli eletti conseguono dal fatto che al popolo viene attribuito il titolo solo formale di essere sovrano ma questo titolo che si esplica solo nel momento delle votazioni non può conseguire nessuna funzione reale perché la vita reale della società viene gestita attraverso i soggetti costituiti per quanto potere si sono conquistato. La logica dei contrappesi (e menomale che fu pensata) si rivela insufficiente perché ciascun contrappeso finisce per rappresentare interessi di parte. Il vero contrappeso che dovrebbe essere dato dall’insieme di tutti i cittadini è escluso completamente dal gioco e non esplicando la propria funzione rimane completamente diseducato a partecipare con l’obiettivo di costruire la buona società, può reagire o affidandosi ciecamente ad una parte politica o disinteressandosi completamente se ritiene che siano tutti inaffidabili oppure adoperando la violenza per acquisire il potere che gli viene negato.
Credo che in questo discorso ci sia almeno un minimo di verità e allora non basta averlo detto, bisogna trovare il modo di sciogliere il nodo, istituire regole che diano a ciascun cittadino almeno lo stesso potere sul piano politico.