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Vittime di alternanza

Dal parere del titolare del centro estetico presso cui svolgevano lo stage dipendeva la loro promozione a scuola”. Così OggiScuola inizia il racconto di quanto accaduto a quattro studentesse di Monza, abusate dal titolare del centro estetico presso il quale avrebbero dovuto “formarsi”.

Non stiamo scrivendo di caporalato, di donne ricattate e violentate da agrari ragusani, ma della ricca provincia lombarda e di percorsi scolastici che prevedono partenariati con soggetti esterni alla scuola.  

Poco importa se si tratti di alternanza scuola–lavoro, di stage o di tirocinio formativo o professionalizzante, in gioco sono i rapporti di potere e di forza e le istituzioni che li hanno legittimati ope legis.

Non tutte le forme di sfruttamento ovviamente si risolvono nella violenza sessuale, come nel caso dell’agghiacciante vicenda brianzola. Risulta tuttavia evidente che la chiave per comprendere quanto accaduto sta anche nell’assoluta asimmetria dei rapporti di forza, asimmetria sapientemente costruita da decenni di lotta di classe dall’alto che ha prodotto non solo perdita di diritti sociali, di salario e di tutela del lavoro, ma ha anche costruito un vero e proprio immaginario terroristico, grazie al quale si instilla nel lavoratore, presente e futuro, attuale o potenziale, l’idea che chi non si sottomette alle logiche del mercato, della competitività, della flessibilità e del gigantesco armamentario di sfruttamento messo in atto dal neoliberismo, rimarrà escluso dal mondo del lavoro.

La difficoltà incontrata dal procuratore di Monza, Luisa Zanetti, non solo nel reperire le prove, ma addirittura nel rintracciare le vittime, si spiega probabilmente anche col fatto che il potere economico si esercita tramite il controllo sociale: le impersonali logiche del merito e del mercato generano l’impossibilità di reagire e determinano forme di sudditanza psicologica. A ciò si aggiunge l’istituzione di dispositivi “educativi” che “delocalizzano” la formazione, delegandola a soggetti economici interessati solo allo sfruttamento di manodopera gratuita. I minori sono così posti alla mercé della valutazione di adulti che operano sul mercato: si può facilmente comprendere quanto sbilanciata e de-formante sia la percezione della realtà che viene inculcata nelle menti di giovani individui in formazione.

Senza limitarsi a considerare solo i gravissimi fatti di Monza, le notizie di questi mesi hanno dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, come la cosiddetta partnership tra mondo dell’istruzione e mondo del lavoro sia tutt’altra cosa dall’avere vantaggiose opportunità di partecipazione alla tanto decantata società della conoscenza. Dalla Sardegna alle Puglie, passando per la Campania, la Sicilia o l’Emilia – Romagna, è un susseguirsi di cronache che dipingono situazioni di sfruttamento che poco o nulla hanno a che fare con l’apprendimento: studenti che raccolgono cozze o pomodori, altri intenti a scaricare quintali di olive, a pulire frantoi o bagni, altri ancora, infine, costretti a fare i camerieri in turni di lavoro ordinari e straordinari.

L’alternanza scuola – lavoro porta con sé anche un evidente principio classista, noto a chiunque se ne sia occupato: a fronte di masse di studenti sfruttati, il figlio del professionista o dell’imprenditore ha spesso opportunità di gran lunga differenti. Non è certo così difficile per quest’ultimo svolgere l’attività prevista nello studio del collega del genitore, sia questi un professionista o un imprenditore. In queste pratiche si saldano perfettamente distinzioni di classe, familismo amorale, nepotismo e favoritismi di varia natura.

Qui non si tratta di una sorta di malfunzionamento dell’istituto in sé, ma del reale dispiegarsi della stessa natura dell’alternanza che prevede che la scuola debba “diventare la più efficace politica strutturale a favore della crescita e della formazione di nuove competenze, contro la disoccupazione e il disallineamento tra domanda e offerta nel mercato del lavoro” (da La BuonaScuola – sito MIUR). Da questo breve inciso ministeriale si può facilmente comprendere la ratio della riforma che getta sul mercato del lavoro minori privi di capacità contrattuale di fronte a un mondo con logiche del tutto differenti da quelle scolastiche. Appare evidente, malgrado la rassicurante retorica governativa, la totale asimmetria tra esigenze didattiche e interessi economici, ovviamente a tutto vantaggio dei secondi: “Con l’alternanza scuola-lavoro, viene introdotto in maniera universale un metodo didattico e di apprendimento sintonizzato con le esigenze del mondo esterno che chiama in causa anche gli adulti, nel loro ruolo di tutor interni (docenti) e tutor esterni (referenti della realtà ospitante)” (da La BuonaScuola – sito MIUR).

Il problema non è, quindi, chiedere una riforma o una rimodulazione dell’istituto dell’alternanza scuola–lavoro, bensì abolirne la pratica e, con essa, l’ideologia che l’accompagna, vale a dire la riduzione dello studente alla dimensione dell’assoluta flessibilità, del disciplinamento sociale, della sottomissione e della paralisi del senso critico.

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