Il decesso di Ciro Cirillo – il potente assessore democristiano rapito dalle Brigate Rosse nell’aprile del 1981 a Napoli – ha dato di nuovo la stura per rilanciare la polemica sulla presunta commistione tra militanti delle Brigate Rosse, uomini dei servizi segreti ed, addirittura, organizzazioni camorristiche su quella che è stata definita la “trattativa”. Una modalità di interlocuzione tra apparati dello stato e militanti della lotta armata che, fu detto, era stata diametralmente opposta da quella seguita dalla DC e dagli organi dello stato solo qualche anno prima in occasione del sequestro di Aldo Moro.
Inoltre, ancora in questi giorni, articoli di giornale ed interviste che commentano la morte di Cirillo, insistono su questa tesi e su una lettura storica di tale vicenda imperniata su una vera e propria commistione tra apparati di sicurezza, esponenti criminali e militanti delle Brigate Rosse.
Abbiamo, quindi, chiesto a Vittorio Bolognesi, uno dei dirigenti della colonna napoletana delle Brigate Rosse, di rispondere ad alcune nostre domande.
La redazione napoletana di Contropiano.org
Incontriamo Vittorio e gli chiediamo: che impressione hai avuto nel rileggere queste interpretazioni che, credo, evidenzino un punto di vista differente da quello che all’epoca avevate voluto rappresentare con la vostra iniziativa e con l’intera gestione che avete avuto di quel sequestro e delle rivendicazioni che avanzavate.
La “trattativa” che i mass media ripropongono ciclicamente non è che l’ennesima tentativo di negare lo scontro sociale, politico e militare che ha attraversato questo paese negli anni 70 ed 80. Il sequestro Cirillo è stato pensato ed organizzato dentro lo scenario del dopo terremoto (23 novembre ’80) ed attaccare Cirillo per noi significava attaccare l’intera struttura di potere economico, politico e clientelare a Napoli dialettizzandoci con tutti gli strati proletari in lotta in quel momento. La DC con i suoi boss (Gava in testa) si apprestava a mettere insieme tutto lo sciame di sciacalli imprenditori, faccendieri e camorristi legati al suo carro. Il Grande Affare doveva avviarsi con la deportazione del proletariato da tutto il centro storico verso la palude delle periferie. A decine di migliaia i senza tetto erano stati trasferiti – coattivamente – nelle scuole, nei campi di containers sparsi in tutta la provincia. Interi quartieri erano diventati cantieri a cielo aperto e la gran parte dei vicoli del centro storico erano stati interdetti con muri di cemento. Si trattava di una vera e propria deportazione di massa ed è proprio contro tale progetto che fu incentrata la “campagna Cirillo”. Contro le pratiche di deportazione si impose la requisizione delle case sfitte, la chiusura dei campi dove erano stati ammassati i senza tetto, la pubblicazione dei nostri documenti e comunicati, il sussidio ai disoccupati ed, infine, il pagamento di 1 miliardo e 450 milioni di Lire.
Esiste tutto un filone di stampa che accredita l’idea che la liberazione di Cirillo fu il prodotto di una malsana commistione tra Brigate Rosse, esponenti della DC, dei servizi di sicurezza e di uomini della camorra. Si citano episodi, testimonianze e – se ricordiamo bene – all’epoca furono addirittura prodotti dei falsi scoop per alimentare e sostanziare questa ricostruzione. La quale, evidentemente, faceva comodo alla dialettica ed al posizionamento politico tra i vari settori ed interessi di quello che era un grande partito di potere: la Democrazia Cristiana. Puoi precisarci quale fu il vostro punto di vista e, soprattutto, puoi fare chiarezza sui tentativi, di allora e di oggi, di inquinare una vicenda che, per quanto tragica, era tutta politica ed inserita nell’agenda politica del conflitto in corso nell’area metropolitana napoletana?
Con il sequestro Cirillo non abbiamo aperto nessuna trattativa con chi che sia ma abbiamo posto precise condizioni e richieste che erano dirette espressioni dello scontro sociale a Napoli e che costrinsero la Democrazia Cristina a cedere in tutto.
Anche il precedente sequestro D’Urso aveva portato alla chiusura del supercarcere dell’Asinara perché era stata una campagna di lotta sviluppata in stretta dialettica con le lotte dei prigionieri. E’ proprio nella capacità di sviluppare questa dialettica che si misurarono i rapporti di forza e le possibilità concreta di raggiungere gli obiettivi. Da questo punto di vista il paragone con la “campagna Cirillo” e la “campagna di primavera”, che coinvolse il presidente della DC, Aldo Moro, non ha alcun senso. Per lo Stato, cedere su Moro e liberare i prigionieri avrebbe significato riconoscere l’esistenza di uno scontro rivoluzionario in atto e l’esistenza di una forza politico/militare come quella delle Brigate Rosse. Invece sia con D’Urso che con Cirillo non veniva posto in discussione lo scontro di potere a livello più alto e generale. Se di “trattativa” si vuole parlare questa si è sviluppata tra gli esponenti politici della DC ed i suoi apparati che, pur di riuscire ad individuare noi e, ovviamente, liberare Ciro Cirillo, non si sono fatti scrupolo di immischiarsi – loro – in loschi traffici con esponenti della camorra. Di questo non mi scandalizzo, perché quando lo scontro di classe arriva a determinati livelli, lo Stato ed i suoi apparati usano tutti i mezzi a disposizione: dalle campagne stampa tese a falsificare e screditare le avanguardie di lotta e rivoluzionarie (costruendo teoremi basati su fatti e circostanze che nulla hanno a che vedere con la realtà), ai tentativi (falliti) di infiltrare le organizzazioni rivoluzionarie fino all’uso frequente della tortura e delle “esecuzioni sommarie dei militanti”.
Infine – anche perché su questo aspetto si riscontrano le illazioni e le ricostruzioni più fantasiose e maliziose – la questione del riscatto. La cifra che le Brigate Rosse “ricavarono” da quell’azione risultò essere circa la metà di quella che gli “amici di Cirillo” versarono per quella che fu definita la “colletta”. Com’è si delineò questo controverso aspetto della “campagna Cirillo”? Puoi dirci una tua parola di chiarezza su questo “particolare” che, spesso, è stato motivo di illazioni e speculazione da parte degli strumenti di propaganda ufficiali?
Sulla questione dell’esproprio di 1.450 milioni di lire sono state scritte una montagna di falsità. Prima di tutto va detto che noi avremmo liberato Ciro Cirillo anche se non fosse stato pagato alcun riscatto, in quanto gli obiettivi politici della campagna erano stati raggiunti. Due le ragioni che ci spinsero nel corso della campagna, durata circa 90 giorni, ad avanzare una richiesta economica inizialmente non programmata: piegare ulteriormente la DC facendo esplodere ulteriori contraddizioni al suo interno e finanziare la nostra organizzazione. Per una organizzazione rivoluzionaria procurarsi i finanziamenti per svolgere la propria attività è questione di vitale importanza. Avevamo chiesto 3 miliardi di lire ma il sequestro andava avanti da 90 giorni e non potevamo attendere che venisse raggiunta quella cifra, in quanto il rischio di cadere nelle mani del nemico – con l’accerchiamento militare che era stato messo in atto in città – si faceva ogni giorno più concreto. Decidemmo, per tale motivo, di prendere la cifra che era in quel momento disponibile; cioè quello che abbiamo realmente preso: 1450 milioni di lire.
Sarà sicuramente vero che altri soldi vennero nel frattempo raccolti, ma di tutto questo e dell’insieme di intrighi ed imbrogli che si sono succeduti tra democristiani, familiari di Cirillo e varie figure di faccendieri, noi non sappiamo assolutamente niente. Il fatto che i servizi segreti abbiano promesso mare e monti ad esponenti della camorra per arrivare ad individuare i militanti che avevano nella mani Ciro Cirillo non dovrebbe stupire: è il loro lavoro! Cero è che non riuscirono in alcun modo ad avvicinarci e l’unico canale attraverso cui tentarono un contatto fu il carcere. I compagni avvicinati da qualche esponente della camorra dissero chiaramente che le discussioni sulla liberazione di Cirillo erano politiche e totalmente nelle mani dei compagni all’esterno. In questo modo intimando a tali personaggi sia il divieto di ricontrattarli, sia di prestarsi ad un ulteriore gioco diretto dai servizi segreti.
Personalmente, piuttosto che stare a contrastare tutte le falsità e le mistificazioni dietrologiche su presunte trattative che oramai hanno dimostrato la loro totale inconsistenza, vorrei ricordare che – attualmente – nelle carceri ci sono ancora compagne e compagni che sono stati condannati anche per il “sequestro Cirillo” da più di 35 anni. Il fatto che si continua a portare avanti un processo di falsificazione della memoria e non riconoscere lo scontro sociale che si è sviluppato in questo paese è parte integrante della strategia controrivoluzionaria che ancora oggi viene sviluppata contro tutti i movimenti di lotta e le sue avanguardie.
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Pier Chiarezza
Chi è in carcere da più di 35 anni?
Redazione Contropiano
Per esempio Mario Moretti…
nalia
ma anche Stefano Scarabello (35 anni), Susanna Berardi (35 anni)…che non sono nemmeno in misura alternativa