Passano gli anni, ma non la “fermezza” nel depistare anche il ricordo delle stragi di Stato. A volte commissionate ai fascisti (Piaza Fontana, Brescia, Italicus, Peteano, ecc), altre eseguite in proprio dagli “apparati di sicurezza”. E come ogni anno, nell’anniversario della strage alla stazione di Bologna, riemergono dalle fogne “ricostruzioni” peggio che fantasiose. Sulla più strumentale di tutte, la cosiddetta “pista palestinese”, ripubblichiamo quanto scritto un anno fa.
Questa decostruzione del depistaggio, opera di Insorgenze.net, parla dell’ultima fase della storia della “pista”. La fase iniziale, infatti, era ben presto finita nel ridicolo. In quel caso di parlava di un “militante della Raf tedesca”, di passaggio a Bologna. Peccato che non fosse un militante della Raf, che avesse dormito in albergo con i propri documenti, che non sia mai stato accusato di nulla in Italia, ecc. Insomma, un innocente turista con una passato nel “movimento tedesco”, tirato in mezzo da amici del Mossad, di Mambro e Fioravanti, dei servizi e di chi altro potete immaginare… Per sua fortuna vivo e parlante, al contrario del povero Mauro Di Vittorio.
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Stando a quel che circola su alcuni social network, un “clima persecutorio” si sarebbe abbattuto contro chi si è speso per cercare la verità sulla strage di Bologna. Dove per verità deve intendersi, ovviamente, una cosa sola: ribaltare la sentenza che ha condannato i fascisti per dimostrare la responsabilità dei “rossi” e dei palestinesi.
Il vittimismo è la chiave narrativa che accomuna la destra. Enzo Raisi, l’ex carabiniere missino, un tempo deputato finiano, poi spazzato via dalla dura legge dello scrutinio, ed oggi ritiratosi nella sua fazenda spagnola a matar vitelli, sarebbe vittima di un clima ostile e censorio per aver sostenuto che una delle vittime della strage di Bologna, Mauro Di Vittorio, era implicato nella esplosione della bomba.
Non era vero, ovviamente. E non serve qui nemmeno citare l’archiviazione della indagine bis sulla strage che ha definito Di Vittorio «vittima oggettiva» della esplosione (leggi qui).
Per diversi anni Raisi ha vilipeso il suo cadavere; ha invertito l’onere della prova e preteso che il morto dimostrasse la propria innocenza; gli ha attribuito una identità politica di comodo, quella di «Autonomo», membro del collettivo del Policlinico, per dimostrare i suoi legami con Saleh e la vicenda dei missili di Ortona; ha diffuso notizie false sulle condizioni del suo corpo al momento del ritrovamento, affermando che fosse completamente carbonizzato, lasciando intendere che fosse vicinissimo alla bomba, per meglio dire la tenesse con sé; così insinuando che la perizia giurata di ricognizione del cadavere presente negli atti giudiziari fosse falsa; ha sostenuto che non avesse documenti d’identità ma che viaggiasse in incognito e che la carta ritrovata fosse giunta intonsa all’obitorio dalle mani dell’anziana madre; così dicendo ha dato del falso ideologico al verbale di riconsegna dei suoi effetti personali redatto dalla Polfer ed ha calunniato la povera madre; ha giurato che il suo diario di viaggio era un clamoroso falso e che il biglietto della metropolitana parigina che aveva in tasca ai pantaloni (leggi qui) fosse la prova provata che egli non si sarebbe mai diretto a Londra ma avrebbe fatto tappa a Parigi per prendere in consegna da Carlos la valigia con l’esplosivo.
Affermazioni reiterate in un lunghissimo elenco di interviste, conferenze stampa, interventi sui social, interpellanze parlamentari, ed in un libro, Bomba o non bomba. Alla ricerca ossessiva delle verità, Minerva edizioni 2012.
L’ultimo giapponese
Secondo Valerio Cutonilli, autore di un libro scritto insieme all’ex giudice istruttore Rosario Priore, oggi in pensione, che prova a rilanciare la tesi della pista palestinese all’origine della strage di Bologna, I segreti di Bologna, Chiarelettere 2016, quella di Raisi sarebbe stata una legittima, sincera ed onesta attività di ricerca della verità. Lo scrive in una lettera di risposta ad Anna Di Vittorio apparsa su L’alterUgo, lo spazio web di Ugo Tassinari (leggi qui).
Oggi Raisi è rimasto solo a ribadire le sue convinzioni, come Hiroo Onoda, il soldato giapponese ritrovato dopo 30 anni in un’isola delle Filippine dove si era nascosto per continuare da solo la seconda guerra mondiale. All’epoca, però, erano in molti a dargli man forte: Cutonilli in prima linea (leggi qui), giornalisti come Gabriele Paradisi (leggi qui) e Andrea Colombo che scrivevano dell’«Autonomo romano», senza porsi il problema di fare la benché minima verifica; c’era Valerio Fioravanti che gli correggeva le bozze e manovrava dalle retrovie.
Sempre Fioravanti senza il minimo scrupolo, tempo prima, aveva sollecitato una lettera di buona condotta alla sorella di Mauro Di Vittorio, Anna. Lettera che venne poi girato al tribunale di sorveglianza facilitando l’uscita in liberazione condizionale di Francesca Mambro (leggi qui). Episodio inquietante che lascia pensare ad un atto premeditato. Girava voce, infatti, e Cutonilli lo sa bene, che quel “perdono” celasse, in realtà, un sentimento di colpa dei familiari per una verità indicibile: la responsabilità di Mauro.
Di Vittorio è stato ucciso molte volte, la prima il 2 agosto e poi ripetutamente in quei mesi. Oltre al corpo lacerato e ustionato, al cranio perforato, vollero rubargli l’anima assassinando anche la sua memoria.
Ma poiché oggi la questione Di Vittorio, fatta eccezione per Raisi, è chiusa per ammissione stessa dei molti che all’epoca la sostennero con la parola, o con il silenzio, continuare a discorre di Raisi non avrebbe più senso, a meno di non voler invocare l’intervento della medicina psichiatrica.
Senonché, sempre Valerio Cutonilli, ritiene che uno degli episodi evocati da Raisi sia stato assolutamente provato dalle indagini. Prima di affrontare la questione, però, dobbiamo fare un piccolo passo indietro, altrimenti non capiremmo il motivo di questa difesa ad oltranza di una circostanza che, al di là della sua veridicità, non avrebbe dovuto avere più alcun significato con il venir meno dell’ipotesi Di Vittorio. Evidentemente così non è! E questo lo si capisce dalla trama del libro scritto da Priore e Cutonilli che riprende e corregge la variante della pista palestinese tanto cara a Raisi.
Questa seconda versione venne fuori per risolvere le numerose falle e incongruenze presenti nella ipotesi iniziale: quella della rappresaglia diretta come movente della strage per il sequestro dei missili palestinesi intercettati davanti al porto di Ortona. Si tratta di obiezioni già largamente sollevate in passato che non sto qui a ripetere per ragioni di spazio. D’altronde il fatto che Priore e Cutonilli non l’abbiano voluta ripercorrere rappresenta una prova ulteriore della sua insostenibilità.
Rovistare tra le ossa dei morti
Non solo il movente non reggeva, ma mancavano passaggi fondamentali nella ricostruzione concreta della dinamica della strage. Nessuno, per esempio, ha mai visto all’interno della stazione i due tedeschi, che secondo gli autori della prima versione, avrebbero avuto in appalto la strage, perché la cosiddetta pista palestinese – se ancora non ve ne siete accorti – è paradossalmente priva di palestinesi. Tralasciamo anche qui le obiezioni sui due tedeschi, largamente esposte in passato e recepite anche dalla magistratura. Non è più questo il punto.
Per far sopravvivere la pista palestinese c’era un disperato bisogno di provare l’esistenza di un complice italiano, il trasportatore dell’ordigno, l’autore materiale della deflagrazione, entrato nella sala d’aspetto di seconda classe e qui rimasto accidentalmente coinvolto – secondo la nuova versione – nella esplosione. Un complice da ricercare tra le vittime della strage. Tecnicamente le perizie hanno sempre smentito l’esplosione accidentale. Ma poco importa.
Fu così che Raisi cominciò a rovistare tra i morti, come fanno le jene. Cercava un giovane, possibilmente romano, che potesse avere un qualche legame con l’area dell’autonomia, meglio se con il collettivo di via dei Volsci, come Pifano, Nieri e Baumgartner, arrestati ad Ortona con gli Strela insieme ad Abu Saleh, il rappresentante del Fplp, a cui i missili erano diretti. A dire il vero si cercava anche oltre, tra quei giovani arrestati o attenzionati nelle retate di quegli anni, tra la Tiburtina e Cinecittà che avessero avuto esperienze nella lotta armata.
Alla fine è sbucato Mauro Di Vittorio, 24 anni, di Tor Pignattara. Solo che non era di Autonomia, non frequentava i Volsci, non era affatto un militante anche se era conosciuto da chi frequentava la sezione di Lotta continua del suo quartiere. Di Vittorio guardava altre periferie, quelle londinesi, dove si era stabilito da tempo e aveva una stanza in uno stabile occupato (vedi qui), portava lunghi capelli un po’ rasta, aveva una barba molto folta (vedi qui la sua storia).
Ghostbusters
Svanita l’ipotesi Di Vittorio, Cutonilli e Priore non riuscendo a profilare nessuna altra vittima hanno scovato quella che non c’è, il corpo fantasma. Il succo del loro libro si fonda su una allusiva insinuazione: tra i morti della strage c’è un corpo che non è mai stato ritrovato, salvo un lembo, quello di Maria Fresu. Gli autori sostengono che quel piccolo segmento di tessuto non appartiene alla donna ma ad una ottantaseiesima vittima, il trasportatore o la trasportatrice dell’esplosivo che doveva essere utilizzato – ipotizzano senza alcun elemento – sotto le mura del carcere speciale di Trani per una rappresaglia o un tentativo di fuga di Saleh.
La disintegrazione del corpo della Fresu, lasciano intendere, non sarebbe mai avvenuta. Il suo corpo sarebbe stato sottratto dallo Stato per coprire la scomparsa dell’altro corpo, ben più importante. Tutto questo per tutelare l’indicibile segreto del “lodo Moro”.
Insomma una ennesima teoria del complotto, ancora più surreale della carta d’identità e del Diario di viaggio di Mauro Di Vittorio, falsificati secondo quando andava sostenendo il povero Raisi. Non più una pista, ma una suggestione letteraria, lo spunto per un romanzo noir. Tuttavia consci di tanta fragilità, Priore e Cutonilli hanno moltiplicato le suggestioni, seminando confusione.
Dopo il fantasma arriva il cieco
Oltre al corpo fantasma ci sarebbe anche la storia di un passaporto ritrovato tra i resti della stazione distrutta dalla deflagrazione, appartenente ad un professore sardo, un non vedente, recatosi a Bologna in quei giorni. La stranezza della vicenda starebbe nel fatto che il professore, dalle simpatie politiche indipendentiste, circostanza ritenuta altamente sospetta dagli autori, non avrebbe mai denunciato la scomparsa di quel documento d’identità che riebbe indietro per iniziativa dei carabinieri.
A Bologna c’è il più importante Istituto per ciechi d’Italia e dunque non vi è nulla di strano che un non vedente fosse andato a farsi visitare da quelle parti. L’inchiesta verificò anche l’omosessualità del professore, tenuta nascosta nel suo Paese d’origine. Circostanza, hanno concluso gli stessi carabinieri, che spiegava il comportamento circospetto e imbarazzato dell’uomo. Ma che importa, per Cutonilli e Priore un cieco val bene una strage…
Quattro de relato fanno solo un coro di voci
Nella stessa lettera indirizzata ad Anna Di Vittorio, Cutonilli ribadisce la centralità di un presunto episodio che sarebbe avvenuto nell’obitorio di Bologna nei giorni successivi alla strage. L’8 aprile 2012 sul Resto del Carlino, Raisi aveva dichiarato: «una delle vittime della bomba era un ragazzo di Autonomia operaia. Ho saputo da alcune testimonianze che il giorno dopo, nella sala autopsie, andarono due persone, un giovane mediorientale ed una ragazza. Passarono in rassegna i corpi e, quando videro il ragazzo [Mauro Di Vittorio, Ndr], si guardarono in faccia… Un maresciallo dei carabinieri vide tutto e lì chiamò ma loro uscirono di corsa e sparirono. Chi erano quei due? E perché il ragazzo di Autonomia aveva in tasca un biglietto della metro di Parigi, città dove all’epoca viveva Carlos?».
Cutonilli prende i nomi dei tre testimoni dalla richiesta di archiviazione della procura bolognese: «Alberto Cicognani, Antonio Iesurum e Giuseppe Fortuni, medici all’epoca dei fatti in servizio nell’obitorio, che lo seppero da Piergiorgio Sabattani, il primario che era corso dietro ai due fuggitivi assieme al brigadiere Giancarlo Ceccarelli». Per concludere che «Il Pm Cieri ha ritenuto il fatto non ulteriormente indagabile perché sia Sabattani sia Ceccarelli sono ormai deceduti».
Secondo Cutonilli l’espressione «non ulteriormente indagabile», impiegata dal pm, equivarrebbe ad una conferma della veridicità del fatto. Cosa deve intendersi per veridicità del fatto? Che realmente due giovani siano entrati e poi fuggiti dall’obitorio o che tre medici hanno riferito dei de relato? Oltre al fatto che Cutonilli sia un pessimo storico l’unico dato accertato in questa vicenda è la presenza dei de relato, la cui attendibilità per essere riconosciuta deve rispondere a criteri di verifica interna ed esterna. Conferme esterne non ne esistono. Quanto alla loro attendibilità intrinseca, come vedremo tra poco, essa lascia molto a desiderare.
Andiamo per ordine: intanto Cutonilli forza il testo di Cieri il quale non sostiene mai di avere appurato la veridicità dell’episodio, registra semplicemente i de relato che gli vengono riferiti concludendo di non poter andare oltre, ritenendo in ogni caso sul piano probatorio quanto riferito del tutto insufficiente per modificare la qualità di vittima della strage di Mauro Di Vittorio. Ecco il passaggio integrale:
«La Digos di Bologna, delegata dal pubblico ministero, aveva accertato da Fabrizio Landuzzi, dipendente del Dipartimento di Medicina Legale di Bologna, che il racconto dei due giovani allontanatisi frettolosamente dal cadavere di Mauro Di Vittorio circolava da anni all’interno del Dipartimento ed i medici Alberto Cicognani, Antonio Iesurum e Giuseppe Fortuni, all’epoca in servizio all’obitorio di Bologna (aff. 5647 e ss.), confermavano di avere appreso la circostanza da Piergiorgo Sabattani, che era presente, nell’occasione, con il sottufficiale dei Carabinieri Ceccarelli. Pergiorgio Sabattani e il maresciallo Ceccarelli sono entrambi deceduti». Nelle conclusioni, il Pm chiosa: «L’episodio dei due giovani allontanatisi frettolosamente dall’obitorio non è ulteriormente indagabile, ma il fatto è del tutto insufficiente al pari dell’orientamento politico e del biglietto della metropolitana di Parigi, a collegare Mauro Di Vittorio alla strage di Bologna con una qualità diversa da quella, oggettiva, di vittima dell’esplosione».
Un silenzio lungo più di 30 anni
Anche se «il racconto dei due giovani allontanatisi frettolosamente dal cadavere di Mauro Di Vittorio circolava da anni all’interno del Dipartimento», come ha riferito il teste Landuzzi, l’episodio appare per la prima volta nella narrazione giudiziaria soltanto nell’inchiesta di Cieri avviata nel 2012. Perché i testimoni hanno taciuto per oltre 30 anni? Perché il maresciallo Ceccarelli, se l’atteggiamento dei due giovani era stato davvero così sospetto, non sentì il bisogno di redigere subito un rapporto ai suoi superiori? Perché nel corso degli anni che seguirono, durante la lunghissima inchiesta e i ripetuti processi svoltisi a Bologna, ivi compreso il clamore delle campagne innocentiste, non si è mai recato in procura a riferire l’episodio o cercato di avvicinare un legale che seguiva le udienze?
La stessa domanda vale per il primario Sabattani. E gli altri tre medici in che momento sarebbero venuti a conoscienza del fatto? A che epoca risale la trasmissione del racconto dai presunti testimoni oculari ai tre medici che solo dopo il 2012 lo hanno riferito alla autorità giudiziaria? Perché appena venuti a conoscenza del fatto non hanno deciso di renderlo noto?
Cutonilli lo dovrebbe sapere, perché è il suo lavoro, che un racconto che circola per anni in un posto di lavoro, dal punto di vista strettamente giuridico non ha alcun valore, la procedura penale è molto chiara in merito: «non possono essere oggetto di testimonianza e, quindi, di prova, «le voci correnti nel pubblico» (art. 194 3^ comma).
Le domande non terminano qui: come avrebbero fatto Ceccarelli e Sabattani, stando alle parole di Raisi, a stabilire l’identità mediorientale del giovane senza averlo potuto fermare ed identificare? Come potevano dire che fosse mediorientale e non, per esempio, meridionale? Siamo certi che l’identità mediorientale non si sia aggiunta nel passaggio da un de relato al successivo? Come dice Landuzzi, la voce correva da anni, ma le voci che corrono negli anni spesso si trasformano e si adattano, come le leggende.
La versione letteraria di questa narrazione appare la prima volta nel 1990, in un libro intitolato Strage, di Loriano Machiavelli che scrive sotto lo pseudonimo di Jules Quicher, anticipando di un trentennio quella giudiziaria. Si racconta la vicenda di due giovani di estrema sinistra, di un traffico di armi con la Cecoslovacchia e di una esplosione nella stazione durante un trasporto provocato da un oscuro personaggio. Inizialmente sequestrato e poi ripubblicato nel 2010 da Einaudi, una domanda si impone: quanto la letteratura ha inquinato la memoria influenzando la trama dei de relato?
Non era domenica e non era in Settembre quando a Bologna apparve un eskimo non più innocente…
Aggiungiamo un’altra circostanza: nel corso della deposizione di Anna Di Vittorio, sorella di Mauro, che si recò la sera del lunedì 11 agosto nell’obitorio di Bologna per capire se tra le vittime ancora non identificate ci fosse il fratello, il pm Cieri ha cercato di sapere se i due giovani del racconto tramandato nell’Istituto di medicina legale fossero stati, per caso, proprio i due amici di Anna che l’accompagnarono e che uscirono subito dall’obitorio non riuscendo a sopportare l’odore che emanavano i cadaveri in quelle giornate di fortissima calura. Siccome nelle testimonianze rilasciate all’autorità giudiziaria uno dei medici nel riferire il de relato aveva aggiunto un dettaglio “decisivo”, ovvero che il ragazzo mediorientale indossava un eskimo, Cieri chiese ad Anna se qualcuno di loro vestisse qualcosa del genere. La risposta fu ovviamente negativa. Chi poteva indossare un eskimo a Bologna in pieno agosto?
Il dettaglio, introdotto forse in omaggio a Guccini, è significativo poiché rivelatore della totale inattendibilità dei racconti fatti dai medici legali. E’ noto, infatti, che l’abbigliamento prediletto dai mediorientali sia l’eskimo, soprattutto in estate. Descrivere due giovani era troppo banale, l’eskimo gli avrebbe dato una identità più precisa, due giovani di sinistra…. dei collettivi, come ripete ancora oggi Raisi.
La presenza di questo indumento diventa dirimente e finalmente ci rivela anche perché Cutonilli e Priore ritengano tanto fondamentale attribuire veridicità a questa testimonianza: il «mediorientale con l’eskimo», infatti, può trasformarsi nellla misteriosa ottantaseiesima vittima tanto ricercata, solo che invece di deflagrare con la bomba si è liquesa, come recita Gigi Proietti, al sole di quel maledetto agosto.
Lo strano documento
Prima di chiudere segnaliamo una singolare anomalia presente nella documentazione allegata al libro di Raisi (cap. 10 bis nota 3). Si tratta di una scheda dell’Istituto di medicina legale di Bologna n.16744 che contiene una esposizione sintetica dei risultati della ricognizione cadaverica realizzata sul corpo di Mauro Di Vittorio, svolta dal prof. Puccini, senza firma autografa. L’anomalia consiste nella data e nell’ora indicata sulla scheda, ovvero le ore 11.00 del 2 agosto 1980 e nella presenza dei dati anagrafici e di residenza di Di Vittorio che a quell’ora non era ancora stato identificato. Non è dato sapere (anche se ci appare improbabile) se appena mezzora dopo l’esplosione il corpo di Mauro Di Vittorio fosse già stato estratto dalla macerie e condotto all’obitorio, quello che sappiamo è che il verbale di ricognizione cadaverica realizzato dal professor Puccini, presente nel fascicolo giudiziario (con firma in calce di Clemente Puccini e di Antonio Iesurum), venne svolto il 6 agosto su un corpo ancora senza nome e che l’identificazione ufficiale avvenne alle 12.15 del 12 agosto, in presenza della sorella Anna e della madre di Mauro Di Vittorio, signora Maria davanti all’ufficiale di polizia giudiziaria Rolando Aragona.
Il che vuol dire che il 2 agosto alle ore 11.00 non era possibile trascrivere alcun dato anagrafico del cadavere numero 33. Il documento pubblicato è probabilmente una scheda interna dell’Istituto di medicina legale, redatta successivamente all’identificazione del cadavere, quindi non prima del 12 agosto, ma antidatata al 2. Anche il testo della ricognizione è difforme dalla perizia ufficiale, non è presente la descrizione del vestiario e vi sono delle modificazioni rispetto al testo originale. La cosa è strana poiché sarebbe stato sufficiente allegare la fotocopia della necroscopia ufficiale.
E’ singolare che Raisi, assertore da sempre della tesi che Di Vittorio viaggiasse in incognito, poi, pubblichi un documento che smentisce le sue parole. E’ anche strano che non abbia utilizzato i documenti presenti nel fascicolo giudiziario, anzi affermi che copia di questi fossero assenti dall’istituto di medicina legale, per poi essere smentito dal pm Cieri che nella richiesta di archiviazione scrive il contrario, ed abbia invece fatto uso di atti interni dell’Istituto stesso, non accessibili al pubblico, e che non si comprende come siano finiti nelle sue mani.
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