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Uscire o rimanere nella Ue e nell’euro? Decida un referendum popolare

In questi giorni abbiamo visto palesarsi davanti agli occhi di tutti il nocciolo della contraddizione che andiamo denunciando da tempo. Un governo espressione di un voto popolare “dissonante” che evoca una rimessa in discussione dei Trattati europei viene preso in mezzo ad una gabbia di ferro. Il fatto che le forze che esprimono il governo abbiano più volte abbassato il tiro, fino a diluire abbondantemente le critica alla gabbia Ue/Eurozona, non appare sufficiente a metterlo al riparo dalle bordate che arrivano dal Quirinale, da Bruxelles, dalle banche e dalla Confindustria, un arco di forze materiali che si rappresentano però con la metafisica identità de “i mercati”, una sorta di entità superiore e inamovibile nella priorità dei suoi interessi su tutto il resto.

Intorno alla nomina di un ministro, Paolo Savona, si è aperto uno scontro feroce a causa delle tesi, eurocontrarie più che euroscettiche, contenute in un libro in via di pubblicazione e in alcune interviste rilasciate negli anni precedenti. A nulla vale il curriculum di uomo dell’establishment di Savona: altissimo dirigente della Banca d’Italia e di Confindustria, addirittura ministro in quel governo Ciampi che attuò pienamente i diktat del Trattato di Maastricht. E forse proprio l’esperienza diretta e indiretta nei governi subalterni all’Unione Europea, ha portato l’economista Paolo Savona a capire che l’Eurozona si è rivelata una gabbia che distrugge sul piano economico/sociale il nostro e gli altri paesi periferici e privilegia la borghesia transnazionale europea, soprattutto quella tedesca.

Ma la contraddizione che si va incancrenendo e sulla quale occorre mettere i piedi nel piatto non è solo economica, è anche una emergenza democratica.

A questo punto se larga parte della popolazione di un paese esprime un orientamento che chiede la rimessa in discussione della gabbia dei Trattati europei e si sente rispondere che non può farlo in nessun modo, che tipo di vulnus democratico si è aperto? E’ uno squarcio, un infarto vero e proprio. Abbiamo letto in questi giorni editoriali che ci dicono che la Costituzione è ormai secondaria rispetto ai dettami “superiori” espressi nei Trattati europei. Abbiamo visto palesarsi come la sovranità popolare sia ritenuta irrilevante rispetto alle scelte di indirizzo in materia economica, industriale, sociale contenute nelle “raccomandazioni” della Commissione Europea. Abbiamo verificato come il “vincolo esterno” – introdotte come una clava dal governo Amato nel 1992, l’anno del primo massacro sociale e del Trattato di Maastricht – condizioni, imbrigli, imprigioni tutte le decisioni di un paese. In sostanza vediamo ripetersi, anche se con soggettività politiche diverse, lo scenario della Grecia del 2015 quando la maggioranza espresse con enorme coraggio l’Oxi, il No ai diktat contenuti nel memorandum della troika europea.

Ma nell’Italia della primavera del 2018 come nella Grecia dell’estate 2015, possiamo tutti verificare che è impossibile negoziare o rinegoziare con le autorità di Bruxelles e Francoforte. E allora? Allora diventa credibile, anzi indispensabile, tentare un’altra strada, altre soluzioni, altre alternative alla capitolazione e alla sopravvivenza nella gabbia della Ue e dell’euro, e della Nato ci sentiamo di aggiungere.

Da poco più di un mese la Piattaforma Eurostop ha messo in campo una campagna popolare adeguata alla posta in gioco e centrata sulla contraddizione che si va palesando: vogliamo un referendum popolare e democratico sulla adesione o meno ai Trattati europei. Non solo, se vincesse il No ai Trattati occorre agire conseguentemente con l’uscita unilaterale dall’Unione Europea e dunque dall’Eurozona (fare il contrario non è possibile). E’ quanto afferma sostanzialmente il Piano B con cui France Insoumise ha raccolto un quinto dei consensi popolari in Francia nel momento in cui si frantumavano tutte le forze politiche storiche (gaullisti e socialisti) e con cui ha sottratto consensi alla destra nei quartieri popolari e nei settori operai del paese.

E’ tempo di coraggio politico e di iniziative all’altezza della partita. La paura delle parole e della propria ombra che da anni ha sgretolato la sinistra residuale è ormai inservibile. L’europeismo “di sinistra” è obiettivamente collaterale alle forze liberali e inefficace contro il populismo di destra. La rottura del quadro esistente – di cui l’Unione Europea è un perno strategico – è il terreno internazionalista, popolare, democratico e di classe su cui è possibile svolgere un ruolo adeguato allo scontro in corso. E’ una battaglia semplice anche da declinare: vogliamo il referendum, vogliamo che le persone in carne ed ossa – e non il Quirinale o la Commissione europea – possano decidere sul proprio futuro.

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1 Commento


  • marco

    dunque,
    sono comunista, sono antieuropeista, sono per l’uscita unilaterale dalla moneta unica, e tutto quello che consegue.
    Però se ci si imbarca in una battaglia, bisogna partire dal presupposto di dire la verità.
    La verità è rivoluzionaria diceva il nostro gramsci e come comunista ho fatto un punto fermo attenermi a questa pratica rivoluzionaria.
    Se si mobilitano dei compagni, si spendono energie, si propone una tattica per ottenere un obiettivo strategico, non si può sottointendere che quella del referendum è solo una scelta tattica.
    Una tattica buona?
    una tattica cattiva?
    serve a contarci?
    A mandare un segnale?
    Non saprei, certo se serve la si segua,. qualunque cosa rinfocoli il conflitto è sempre benvenuta.
    Però bisogna essere chiari quando si andrà in giro a far campagna referendaria.
    Bisogna dire che le strade effettive per ottenere l’uscita dall’europa dovranno essere altre.
    Bisogna dire, spiegare bene, fino alla nasuea se serve, che tale referendum avrebbe solo un valore consultivo, perchè in italia, per costituzione (ART,75) i trattati internazionali non possono essere oggetto di referendum.
    Quindi avrebbero un valore squisitamente politico, utile certo nell’acuire delle contraddizioni in essere nelle sedicenti democrazie liberali, al massimo un valore consultivo (ma ne dubito fortemente, visto chi ci governa), senza essere minimamente vincolante per l’esecutivo.
    Se no si è ambigui.
    se no si disperdono le forze per nulla.
    se no si fa solo un’operazione di facciata.
    se no non si dice la verità (o per lo meno non la si dice tutta)
    se no non ci si comporta da comunisti

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