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Bologna. La Festa di Potere al Popolo e “la questione settentrionale”

Attilio, entusiasta, levò il pugno al cielo. «Sì, viva il socialismo, boia d’un mond lèder

Il Sol dell’Avvenire, Valerio Evangelisti

Nel quarto numero del 2016 della più prestigiosa rivista di geopolitica italiana “Limes”, dal titolo “indagine sulle periferie”, la redazione propone “un viaggio nei labirinti delle metropoli dove si giocano le partite decisive per il futuro dell’Italia e del mondo”.

Un titolo senz’altro suggestivo che invoca una idea-forza: non nel “centro”, ma nelle “periferie” si giocano le sorti del nostro Paese e del resto del mondo.

È il direttore della rivista, Lucio Caracciolo, nel suo editoriale “Il resto del mondo”, che azzarda una definizione particolarmente pregnante dalla particolare angolatura attraverso la quale la “sua” scienza osserva il mondo:

In geopolitica, dove interessano le quote di potere materiale e immateriale in ambiti determinati e le competizioni per accaparrarsele, il termine «periferia» può essere adatto a descrivere, sulla scala urbana come su quella globale, i contesti a bassa pressione istituzionale e a forte informalità. Il resto del mondo: ciò che non pertiene direttamente ad un centro di potere, perché non conta o viene considerato più zavorra che risorsa. Lo scarto, per citare il papa delle periferie”.

Prendiamo il termine scarto con una altra valenza semantica e applichiamolo al nostro oggetto, scarto significa anche differenza, in questo caso potremmo dire: lo scarto tra centro e periferia.

Ed è proprio questo scarto nella sua doppia valenza, è uno dei nodi centrali del programma della Festa di Potere Al Popolo di Bologna, dal titolo appunto “Riprendiamoci le periferie”.

Non si tratta di una mera indagine sociologica per addetti ai lavori, ma di sviluppare quella capacità di esercitare una “pressione” su uno spazio che da punti di vista differenti – ma alla fine convergenti – noi insieme a Caracciolo definiamo come centrale nel nostro investimento politico.

È la pressione che esercitiamo sulla periferia, in grado di trasformarsi in pressione che la periferia esercita verso il centro, su cui alla fine saggiamo la nostra capacità militante.

Possiamo, anzi dobbiamo aggiungere, che sulla “messa a valore” di quella eccedenza umana (lo scarto appunto), dei suoi bisogni e del suo territorio da parte del capitale, contro la determinazione delle istanze della plebe che si gioca la partita, anche della rappresentanza e si configurano i rapporti di forza tra le classi.

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Mappare questo spazio centrale perché periferico, potremmo dire con un ossimoro, per orientare la nostra azione, come parte integrante di un mondo in cui dobbiamo sempre più “avere le radici nello sfondo”, per citare Pavese, è una premessa costante per potere incidere sui processi reali.

Questo universo ha una collocazione precisa e presuppone una relazione organica con le altre parti, sta di lato ma non “fuori”, sta ai margini ma non “oltre”.

Questo territorio, con al centro la Lombardia, è quello che va configurandosi nella divisione del lavoro made in UE come l’unica macro-regione italiana non in netta “discontinuità” con l’area core dell’Unione; al sud del quale, in questa ipotetica “nuova linea gotica” in sempre maggiore definizione costrittiva, l’Europa si tramuta in Mediterraneo.

In questo spazio, le aree metropolitane – che non solo le semplici estensioni urbane delle principali città – sono motori di sviluppo dove troviamo punti nevralgici che caratterizzano l’attuale modello e la sua riproduzione che il documento, proposto come base di discussione, introduce sinteticamente nelle sue specificità.

Come scrisse Desideri nella “Città di latta”, circa quindici anni fa: “la forma di metropoli odierna dal punto di vista fisico è la periferia”.

All’interno di queste aree, lo sviluppo ineguale interno, lo spazio è socialmente polarizzato, tra “noi” e “loro”.

Il nostro blocco sociale è anche la nostra speranza, o per dirla con Walter Benjamin: “è a favore dei disperati che ci è data la speranza”: quella della trasformazione e non certo della conservazione, anche delle forme del politico.

La speranza di non venire identificati come “loro” sta nel produrre uno scarto evidente con ciò che i subalterni percepiscono giustamente come alieno e ostile: “la Sinistra”, che individuano come parte del loro problema e non della soluzione.

La chiarezza di indicazione del nemico nella UE è alla base della possibilità di scalfire e sconfiggere le narrazioni correnti degli imprenditori del razzismo; ogni ambiguità o vaghezza a riguardo porta ad essere immediatamente identificati come “venditori di fumo” dal nostro blocco sociale di riferimento, in contiguità con i vari spacciatori di soluzioni che fino a qui hanno miseramente fallito.

Questa speranza si declina sempre in maniera duplice: da una parte come soddisfacimento di un bisogno che ha come conditio sine qua non l’attacco ad un interesse specifico di questo sistema; senza questa dialettica non si produce “rottura”, ma una continuità con un sistema di governance per cui i sottoposti sono solo cavie attraverso cui si misura la tolleranza nei confronti dell’esproprio quotidiano a cui vengono sottoposti.

Senza questa dimensione di lotta, rimangono le chiacchiere della sinistra nell’amministrazione dell’esistente e la morale dei buoni sentimenti, spesso eticamente condivisibili quanto inefficaci all’atto pratico.

Occorre quindi identificare gli strumenti organizzativi, non con una operazione a tavolino, ma con la continua sperimentazione con la verifica empirica: pratica-teoria-pratica.

Perché, senza sedimentazione organizzativa, la dimensione del conflitto fine a sé stessa rimane niente di più di un dato fisiologico di una frizione che non produce frattura, soprattutto in tempi come questi dove l’aspettativa di cambiamento non è data nella percezione dei più come una possibilità dell’azione collettiva ma rimane solo una variabile dentro le proprie scelte elettorali in senso “populista”.

Ma l’organizzazione non è solo avere le gambe per camminare, ma di cervello collettivo (il tempo dei “grandi intellettuali” è definitivamente tramontato, al massimo si accettano i contributi di quelli organici) che indica la strada da seguire.

Per sfuggire a questo scenario, che in un futuro forse neanche troppo lontano potrebbe concretizzarsi anche per noi – producendo non poche contraddizioni – , trovando nella nostra offerta politica un appeal maggiore di quello riscontrato in chiave elettorale senza essere in grado di dar vita ad un processo inclusivo di protagonismo popolare e di attitudine militante ricorriamo ad un episodio del “Trono di Spade” della famosa serie televisiva, terza stagione, decimo episodio per l’esattezza.

Quando la sua traduttrice Missandei riferisce solennemente agli schiavi che devono la loro libertà a Daenerys nata dalla tempesta, la non bruciata, regina dei Sette Regni di Occidente e madre dei draghi, questa le fa segno di tacere e pronuncia le seguenti parole:

Non mi dovete la vostrà libertà. Io non posso darvela. Non mi appartiene, quindi non posso darvela. È vostra, e vostra soltanto. Se la rivolete, dovrete riprendervela da soli. Ognuno di voi”.

Ed è in queste parole che sta la differenza di un progetto come Potere Al Popolo ed una delle varianti populiste sul mercato della politica, come della “vecchia sinistra”.

Perciò l’appuntamento di Bologna è prezioso per definire dentro “la questione settentrionale” il nostro spazio d’intervento e di maggiore organizzazione.

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