Il referendum del Veneto del 2017 sta producendo un iter legislativo che conduce pericolosamente quanto silenziosamente verso la regionalizzazione di servizi essenziali, in primis l’istruzione. Il referendum è stato reso possibile dalla riforma del titolo V della Costituzione, approvata nel 2001, che ha di molto ampliato le competenze delle regioni su materie essenziali, come appunto la scuola e la formazione. Il rischio concreto è quello di costruire una sistema scolastico regionale e quindi di creare inaccettabili differenze all’interno del sistema scolastico nazionale. La riforma del del Titolo V della Costituzione ha sottratto allo Stato l’esclusività in materia di istruzione lasciando nelle sue competenze esclusivamente le “norme generali”, “i livelli essenziali delle prestazioni” e i “principi fondamentali”. Questo federalismo aumentato (che coinvolgerebbe altri servizi essenziali, come la sanità) potrebbe non trovare alcun contrasto. La maggior forza di opposizione parlamentare è infatti quel PD che la riforma del titolo V volle fortemente. L’attuale governo Lega-Movimento Cinque stelle potrebbe pertanto non trovare alcun ostacolo ai progetti federalisti del Veneto. Non va poi dimenticato che se l’attuale pre-intesa è stata sottoscritta, oltre che dal Veneto, anche da Lombardia ed Emilia Romagna, già altre Regioni – tra cui Campania e Piemonte – hanno mostrato di volersi aggregare.
USB denuncia in primo luogo che questi progetti hanno lo scopo prioritario di mantenere il gettito fiscale all’interno delle regioni del Nord in assoluta violazione del principio di redistribuzione, che trova fondamento nella Costituzione ed è alla base dell’unità nazionale. Tanto più in un paese dove tanto peso ha avuto la migrazione interna della forza lavoro. La ricchezza del Nord è stata costruita anche e soprattutto dai lavoratori emigrati dal Sud. Questo vale ancor di più per la scuola, dove ormai da anni il problema della carenza di insegnanti genera difficoltà sempre maggiori per l’avvio dell’anno scolastico. Difficoltà il cui superamento è spesso legato alla disponibilità (e all’obbligo) dei docenti del Sud a trasferirsi al Nord per poter lavorare, visto che la mancata stabilizzazione degli organici nelle regioni del Meridione non consente trasferimenti ed assunzioni. La regionalizzazione della scuola, con il passaggio del personale neoassunto in capo alla Regione, creerà a nostro avviso un sistema in cui i trasferimenti dei docenti diventerebbero impossibili, creando ulteriori difficoltà e sofferenze, dopo quelle provocate dal famigerato algoritmo della L.107. D’altra parte i continui disinvestimenti e tagli, che paiono essere confermati da ogni governo, non potranno che portare a un aumento dei flussi migratori dal Sud al Nord del paese.
Ci sembra peraltro una promessa priva di fondamento lo sventolato aumento stipendiale, non solo perché da sempre i lavoratori della formazione regionale sono pagati meno di quelli statali, ma anche perché crediamo che nella modifica/rinnovo dei contratti si inseriranno clausole che favoriranno la precarietà, la licenziabilità e la ricattabilità dei neoassuti da parte dei capi di istituto. Lo affermiamo alla luce delle politiche portate avanti dal governo centrale e dalle regioni in questi ultimi 30 anni almeno. E non è possibile dimenticare che i vincoli di bilancio imposti allo Stato italiano dalle scellerate politiche di austerità europea, sono tali anche per le amministrazioni locali, perchè dunque dovrebbero esserci a disposizione più soldi per i docenti regionali?
Non possiamo dimenticare inoltre che il settore più regionalizzato del welfare, la sanità, è peggiorata in tutte le regioni, anche lì dove rappresentava un’eccellenza, come in Lombardia, con liste di attese interminabili nel pubblico, a favore dei privati, dei sistemi di welfare aziendali e delle assicurazioni. Questo anche perché regionalizzazione ha significato privatizzazione, ovvero messa a profitto della salute. Siamo sicuri di volere che anche l’istruzione sia messa a profitto?
Inoltre legare la distribuzione dei fondi statali a “fabbisogni standard” definiti in base al gettito fiscale di ogni regione, quindi in funzione della ricchezza dei cittadini di una certa zona geografica, è un pericolo rispetto agli organici, alla mobilità, ma anche rispetto al servizio erogato. La mobilità diverrebbe il frutto di eventuali accordi tra regione e regione o tra Stato e regione, in alcune regioni una parte dello stipendio degli insegnanti dipenderebbe dai contratti di secondo livello, da incentivi e da premi che farebbero lievitare gli oneri fiscali per i contribuenti, l’ente regionale diventerebbe il datore di lavoro dei nuovi docenti a fronte di altri lavoratori nelle medesime scuole che rimarrebbero dipendenti statali, con la presenza di differenti categorie che fanno lo stesso lavoro. Queste le prime indiscrezioni. E i lavoratori della scuola di Veneto e Lombardia sono circa 197mila.
USB contrasterà in tutti i modi l’istituzione di un sistema discriminatorio, che produrrebbe ulteriori disuguaglianze tra le regioni italiane e renderebbe la scuola pubblica sempre più asservita alle esigenze del sistema produttivo dei diversi territori.
Intendiamo portare in piazza il dissenso dei lavoratori della scuola, a partire dalla manifestazione del prossimo 15 febbraio a Roma.
Unione Sindacale di Base Scuola
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