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La battaglia sui salari: quando la sinistra era presente a se stessa

Marziani o semplicemente razionali? In un editoriale di poche settimane fa ponevamo in grande evidenza il problema del programma politico con cui una forza che abbia l’ambizione di rappresentare – anche elettoralmente – il “blocco sociale” popolare potrebbe cominciare ad avvicinare l’obbiettivo, lavorando tra la gente, nelle strade e nei luoghi di lavoro, senza perdersi ancora una volta nei corridoi in cui si cucinano le “liste elettorali”.

Al primo punto mettevamo – siamo strani, vero? – il problema del salario. Siccome ormai si lavora per una cifra x, che ogni “datore di lavoro” decide ed impone per proprio conto (indistinguibili ormai dall’ultimo caporale mafioso nei campi di pomodori), proponevamo “l’introduzione in Italia del salario minimo, indicizzato all’inflazione e determinato nella misura di 1.200 euro per l’anno 2019. Il lavoro straordinario, festivo o notturno va pagato come minimo il 50% in più”.  Ovviamente per qualsiasi tipo di lavoro, come salario d’ingresso (da incrementare con anzianità, passaggi di livello e assegni familiari) e per 40 ore settimanali.

Sognatori…

Ora un corsivo come sempre intelligente di Alessandro Robecchi va a rovistare nella memoria di quella che un tempo aveva senso chiamare “sinistra”, riscoprendo questa “banalità” del salario che deve essere sufficiente per vivere, non per arricchire chi fa finta di dartene uno. Perché è il prezzo del lavoro, non una concessione arbitraria del “padrone”. Scrivevamo quella proposta – insieme ad altre, ovviamente discutibili e implementabili dai soggetti che effettivamente organizzano settori della classe – consapevoli del tabù che circonda ancora oggi in Italia il concetto di “salario minimo”.

Negli anni ’70 e ’80 anche noi eravamo contro la fissazione per legge di una retribuzione minima del lavoro, perché effettivamente a quei tempi avrebbe – per così dire – “scoraggiato la conflittualità” dei lavoratori dipendenti. Se hai già garantito un minimo sufficiente a sopravvivere e riprodurti (famiglia, figli, ecc), perché mai avresti dovuto impegnarti nella lotta per strappare del aumenti salariali anche superiori? Il confitto sindacale d’allora permetteva di ottenere buoni livelli salariali, anche molto superiori al “minimo vitale”, e con una dinamica generale di riduzione delle differenze tra categorie e dimensioni di impresa. Eravamo forti, come lavoratori, e il salario – per qualche tempo – fu davvero una variabile indipendente dall’andamento dei profitti e proporzionata ai rapporti di forza sociali.

La differenza tra allora e oggi sta appunto nel rovesciamento dei rapporti di forza. Nei luoghi di lavoro, oggi, la paura della perdita del “posto” è superiore alla spinta per avere un salario decente. Che infatti scende continuamente, specie per i “nuovi assunti” e per tutti i contratti precari. Senza che ci sia un significativo fermento conflittuale. Il quale riemerge temporaneamente solo al momento della chiusura dello stabilimento (e simili), per delocalizzazione o svendita a investitori internazionali.

Dunque quella motivazione d’allora oggi non sta in piedi. E’ storicamente determinata, dipendente da un insieme di variabili economico-sociali-temporali, non un principio assoluto valido in ogni epoca ed in ogni fase. Basta guardare il movimento francese, dove l’obiettivo dell’aumento del salario minimo è al primo posto nella piattaforma dei gilet gialli.

Rotta la solidarietà di classe nei luoghi di lavoro, insomma, compartimentati i settori produttivi, eliminati – grazie alla complicità di CgilCislUil – i canali di comunicazione tra le migliaia di figure professionali dell’universo del lavoro dipendente (senza distinzioni tra lavoro manuale e intellettuale), l’obiettivo del salario minimo diventa elemento concreto del processo di riunificazione della classe a partire dalla condizione comune dentro e fuori il posto di lavoro. E’ un obiettivo di lotta, non più un elemento di “pacificazione”. Ma guarda tu che ti combina la Storia…

Abbiamo avanzato questa proposta, insieme ad altre, pensando ad un soggetto come Potere al Popolo. E faremo come sempre di tutto perché l’assuma come terreno di campagna politica e organizzazione diretta della classe, ben al di là dei necessari momenti di solidarietà alle lotte esistenti.

Ma in ogni caso, come sempre accade quando la condizione sociale insostenibile comincia a “premere”, pensiamo che diventerà presto un grido collettivo. Nelle piazze d’Italia come in quelle di Francia e di altri paesi europei.

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Qualche settimana fa, in questa rubrichina, ebbi l’ardire di parlare di salari. Lo feci un po’ imbizzarrito, ammetto, dal fatto che alcuni (Confindustria, Boeri e altri) notavano che molti italiani che lavorano prendono più o meno come il reddito di cittadinanza. Pareva dagli accenti, dalle sfumature, e a volte anche da affermazioni dirette, che ciò fosse gravemente lesivo del libero mercato che – prendendo un disoccupato una certa cifra – non avrebbe potuto comprimere ancora di più i salari. Una specie di concorrenza sleale tra disoccupati poveri e lavoratori poveri su cui i “poveri” imprenditori versavano accorate lacrime.

Mal me ne incolse, perché venni subito apostrofato da Carlo Calenda che mi chiedeva (a me!) idee su come alzare i salari, che è un ben strano modo di intendersi esperti del ramo, un po’ come se l’elettrauto mi chiedesse col ditino alzato: “Beh? Come si monta questa cazzo di batteria? Me lo dica, non stia lì solo a criticare!”. Non fa una piega.

Segnalo comunque che nelle settimane intercorse si sono ascoltati tutti discutere su come abbassare il reddito di cittadinanza, e nessuno su come alzare i salari, quindi diciamo così che a pensar male ci si azzecca.

Ora che il Pd affronta un congresso per decidere dove andare, non è male che qualcuno, là dentro, rifletta sul tema della rabbia. Un grande partito sa incanalarla, farne strumento di pressione, volgerla verso decisioni meno inique, mentre il Pd, per quello che si è visto e sentito, l’ha guardata crescere come la mucca guarda passare il treno, e in qualche caso fomentata.

Dal 2010 al 2017 (governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) i salari reali sono calati del 4,3 per cento (fonte: Sole 24 ore), un dato che dice tutto, a proposito di incazzatura. Se volete sommare altri numeretti, che sono noiosi ma spiegano l’ampiezza del problema, sappiate che un italiano su tre dichiara meno di 10.000 euro l’anno, cioè una cifra insufficiente a campare degnamente. Si aggiunga la questione del lavoro “sovraistruito”, cioè quel trentacinque per cento di lavoratori diplomati e laureati che hanno un’occupazione non adeguata al titolo di studio. Insomma: ingegneri che consegnano pizze, sì, ne abbiamo.

E del resto, quando si trattava di ingolosire investitori esteri a venire qui (ottobre 2016), il Ministero dello Sviluppo Economico stampò e diffuse delle belle brochure colorate dove si leggeva: “Un ingegnere in Italia guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri Paesi lo stesso profilo ha una retribuzione media di 48.500 euro l’anno”. Tradotto: venite qui che costiamo meno, veniamo via con poco, due cipolle e un pomodoro. Un vero e proprio vanto (ancora da quella brochure): “I costi del lavoro in Italia sono ben al di sotto dei competitor come Francia e Germania”.

Che culo, eh! Il ministro era – lo dico senza ridere – Carlo Calenda.

Ora, a farla breve, bisogna capire come il salario (che si sognava, a sinistra, variabile indipendente) sia diventato variabile dipendentissima, subordinata e in ginocchio, mentre a diventare variabile indipendente (cioè intoccabile) sono i profitti e le rendite. Capire, sì. E magari anche intervenire sulla vera manovra urgente: riequilibrare la voragine che si è aperta nel reddito dei lavoratori italiani, quelli che hanno pagato la crisi.

Quali forze politiche oggi vogliono e possono prendere questo problema e farne il centro della loro azione? Si direbbe nessuna. Eppure, a proposito di popolo e populismo, quella sui salari sarebbe una battaglia assai popolare, a patto di tornare un po’ verso sinistra (il Pd) o di andarci (i 5 stelle).

Chissà, forse disegnare intorno al lavoro (dignità, salari, diritti) una qualche politica di medio-lungo termine, invece di stare appesi alle battaglie dello sceriffo Salvini, sarebbe una luce in fondo al tunnel.

* da Il Fatto Quotidiano

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