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Autonomia differenziata: quali effetti su università e ricerca?

Continua ad avanzare la ristrutturazione del quadro istituzionale del nostro paese attraverso l‘autonomia differenziata. Processo che sta finalmente iniziando a suscitare attenzione ed indignazione in chi lo approfondisce, ma è ancora, volutamente, mantenuto in sordina all’interno del dibattito pubblico nazionale.

Siamo di fronte ad una secessione di fatto delle regioni più ricche del Paese che potranno mantenere sul proprio territorio il gettito fiscale e avere potere decisionale su una serie di competenze fondamentali, come la sanità, l’istruzione e l’ambiente. Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto rappresentano, infatti, il 40% del Pil italiano e questa riforma appare come il tentativo di cristallizzare ulteriormente a livello istituzionale le diseguaglianze che genera questo modello economico: da un lato, si abbandonano i territori non integrati al cuore del capitalismo europeo, dall’altro si svuota lo Stato di risorse per politiche pubbliche di ridistribuzione o di sostegno ai servizi pubblici essenziali, che già oggi si trovano in pesante crisi e contrazione per gli effetti dell’austerity e del vincolo di bilancio imposto dall’Unione Europea.

Per questo lo scorso 15 febbraio eravamo nella piazza chiamata da USB davanti a Montecitorio, insieme a tutti quei soggetti che si oppongono ad una riforma che andrà a colpire e seriamente debilitare il concetto di universalità dei servizi e di ridistribuzione sul territorio delle risorse.
Il mondo della formazione, alla pari di altri servizi pubblici fondamentali, rischia di essere ulteriormente dequalificato a causa dell’ennesimo incentivo alla privatizzazione e all’ingresso dei privati, come già messo in guardia da USB scuola.

L’università non è scollegata da questa dinamica, ma ne risulta invece essere un elemento strategico, come emerge più volte dai punti indicati nelle bozze degli accordi sull’autonomia differenziata presenti online.

Nelle bozze presentate si evince che le regioni che seguono questa strada avranno ampie competenze su alta formazione e welfare studentesco. Si indica, infatti, addirittura la creazione di un Fondo Ordinario Pluriennale che dovrà “essere determinato in funzione del fabbisogno territoriale di servizi essenziali per l’esercizio del diritto allo studio”.

Nei fatti sappiamo però che già la regionalizzazione avvenuta negli scorsi anni, che prevedeva uno stanziamento regionale del 40% del FIS (Fondo Integrativo Statale) oltre alla gestione regionale dei servizi dedicati al diritto allo studio (alloggi, mense, etc), ha causato l’innalzamento esponenziale delle tasse e la differenziazione su base regionale sia dei servizi erogati sia della qualità della didattica. Tutto ciò ha diminuito l’accessibilità all’alta formazione, determinando la sua progressiva elitarizzazione e polarizzazione in pochi poli con sufficiente disponibilità di risorse pubbliche e private e altri invece in crescente difficoltà a garantire anche i servizi più elementari.

Questa differenziazione è palese tra gli atenei del nord, immersi in un tessuto produttivo più avanzato, e quelli del sud che si trovano in regioni con un tessuto produttivo più debole. L’autonomia differenziata non fa che aumentare questa discrepanza sia sul territorio nazionale sia all’interno della stessa regione. Il diritto allo studio, già pesantemente compromesso dalle riforme degli ultimi decenni, che ne hanno determinato il sotto finanziamento a livello nazionale e la sua regionalizzazione, andrà a dipendere in forma maggiore sia dalla “ricchezza” delle specifiche regioni sia dagli indirizzi politici che le stesse vorranno darvi. Non è detto infatti che a regioni ricche corrisponda un diritto allo studio più efficiente ed “universalistico” quanto, con maggiore probabilità, l’accentuazione di un modello “ordoliberale” che negli ultimi anni vediamo in forma crescente incentivato nei nostri atenei.

Questo però non è il solo elemento critico. All’interno delle bozze si specifica chiaramente la necessità di adeguare l’offerta formativa alle esigenze del tessuto produttivo del territorio con la possibilità da parte della regione di concorrere nel creare nuovi corsi di laurea basati sulle “esigenze espresse dal contesto economico, produttivo” oltre a trovare i modi per “il riconoscimento e la valorizzazione del lavoro di ricerca nel settore privato”.

In particolare, la Regione Lombardia, si legge, contribuirà a sostenere la spesa per quei dottorandi che condurranno un progetto di ricerca in un’azienda oppure, viceversa, un lavoratore che l’azienda vuole formare attraverso un corso universitario. Questo tipo di ricercatori o lavoratori verranno chiamati “ricercatori di impresa”, nuovo ruolo pensato per creare una rete di collaborazione tra università e impresa. Dal canto suo, l’Emilia-Romagna specifica “la costituzione di un Fondo Integrativo Pluriennale Regionale a favore della Ricerca e dello sviluppo della Terza missione”, ossia a favore della collaborazione fra università e aziende nei progetti di ricerca, oltre ad Fondo Integrativo per la didattica. 

Sempre l’Emilia-Romagna specifica l’intenzione di “promuovere l’internazionalizzazione del sistema produttivo, della ricerca, dell’innovazione e della formazione” al fine di accrescere l’attrattività e la competitività del territorio anche lavorando in “stretta relazione con l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (ICE), e Invitalia, l’Agenzia Nazionale per l’Attrazione degli Investimenti e lo Sviluppo d’Impresa”.

La bozza della Lombardia afferma ancora all’art.25 di voler orientare la “ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi e alle start up d’impresa” e di detenere le competenze in materia di sostegno all’innovazione e alla definizione degli obbiettivi di sviluppo delle imprese.

Leggendo le bozze presentate sull’autonomia differenziata, risulta evidente il tentativo di “sganciamento” delle regioni più ricche e più integrate a livello produttivo al circuito tedesco, abbandonando di fatto la “zavorra” di uno Stato che seppur in forma via via minore, svolgeva ancora una funzione di redistribuzione delle risorse e con più difficoltà era soggetto a progetti di riforma e integrazione con le esigenze specifiche delle imprese di un territorio. Emerge chiaramente la volontà di integrare completamente il mondo della formazione alle esigenze del contesto economico e di piegarlo ai fini della competitività e del risultato economico del tessuto produttivo specifico regionale.

Con l’autonomia differenziata si avrà un’intensificazione delle tendenze di privatizzazione degli atenei e mercificazione della ricerca, sempre più piegata agli interessi delle aziende, sempre meno libera. Oltre infatti ad un ancora più marcata polarizzazione e differenziazione tra gli atenei, si avrà la completa integrazione di quella che è l’università pubblica e la ricerca pubblica alle necessità contingenti del tessuto produttivo locale specifico.

In una fase di intensificazione della competizione globale, il capitale industriale del nord-est italiano reagisce sganciandosi dal resto del paese e piegando completamente il mondo della formazione ed alta ricerca alle proprie esigenze. La produzione di conoscenza, la ricerca pubblica e l’alta formazione nella nostra società avranno quindi la sola funzione di garantire e favorire la valorizzazione del capitale privato, all’interno di un mercato mondiale caratterizzato da crescente competizione e contrapposizione di centri capitalisti.

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