Si avvicinano le elezioni europee del 26 maggio, il campo politico nazionale si trasforma e i principali attori finiscono spesso in attività di propaganda che rasentano il ridicolo, alla disperata ricerca di voti, soprattutto tra i tanti ancora indecisi e coloro che per il momento propendono per l’astensione. Ma è la grammatica della (cattiva) politica, quella che mente perché deve nascondere le sue reali intenzioni, e va accettata con una buona dose di serenità.
Questa dinamica vale anche e soprattutto per le questioni economiche, che occupano una posizione privilegiata negli interessi dell’elettorato, non fosse altro perché le scelte future del governo e delle istituzioni europee toccano implicitamente i nostri portafogli, il nostro diritto al lavoro e alla casa, a tempi di vita degni di essere chiamati tali e così via.
Cerchiamo quindi di fare un po’ di chiarezza in merito, iniziando dall’ultima battaglia di spade tra i due vice Presidenti del Consiglio, gli ineffabili Matteo Salvini e Luigi Di Maio.
L’onnipresente Ministro dell’Interno, nel suo perenne tentativo di dettare l’agenda mediatica del paese, qualche giorno fa se n’è uscito così:
“Sforare il vincolo UE deficit/Pil del 3%? Non si può, ma si deve. Il 26 si vota per l’Europa. È fondamentale che gli italiani ci diano una mano a cambiare questa Europa mettendo al centro i diritti e il lavoro. Se servirà infrangere alcuni limiti del 3% o del 130-140%, tiriamo dritti. Fino a che la disoccupazione non sarà dimezzata in Italia, fino a che non arriveremo al 5% di disoccupazione spenderemo tutto quello che dovremo spendere e se qualcuno a Bruxelles si lamenta ce ne faremo una ragione.”
Non fa una piega, saremmo assolutamente d’accordo, dei terroristi del debito pubblico onestamente non se ne può più. C’è però qualcosa che non torna: Salvini è il segretario federale della Lega e sta al governo, a quanto ci risulta, insieme ai 5 Stelle. Nel dicembre 2018 è stato perciò corresponsabile del ridicolo balletto mediatico con la Commissione europea, dal quale una manovra finanziaria già di per sé restrittiva è stata ulteriormente annacquata, riducendo il deficit dal 2,4% al 2,04%, per la gioia dei mai paghi guardiani dell’austerità nostrani, di cui Salvini è solamente l’ultimo epigono.
Il governo ha dunque accettato di aumentare l’avanzo primario, espressione della quantità di risorse che lo Stato drena dall’economia, ponendosi così chiaramente in continuità con una tradizione radicata nel panorama italiano, che risale al 1992. Se escludiamo l’involontaria parentesi (in quanto dovuta alla crisi) in deficit del 2009, in questo paese i giovani dai 28 anni in giù non hanno mai sperimentato una manovra fiscale realmente espansiva. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, eppure c’è chi non ne ha ancora abbastanza.
Salvini non ha dunque alcuna credibilità. Può spararle grosse quanto vuole, ma il suo guinzaglio è lungo e arriva fino a Bruxelles: dopo il voto gli strattoni arriveranno e il buon Matteo tornerà zitto a casa coi suoi veri padroni. Non che la cosa gli sia sgradita: Salvini è solo chiacchere e distintivo, e condivide comunque l’impostazione liberista che Bruxelles ben rappresenta.
Se Atene piange, Sparta non ride. La replica del M5S alle uscite salviniane è stata tutta imperniata alla ricerca del voto moderato e alla rassicurazione dei mercati finanziari, dopo che il differenziale tra i tassi sui titoli italiani e tedeschi è salito nell’ultimo periodo attestandosi intorno ai 278 punti. Di Maio si è detto preoccupato che Salvini metta in discussione persino il vincolo debito/Pil.
Strano: egli è passato in pochi mesi dall’essere sodale con Salvini nello strombazzare lo sforamento dei vincoli al totale silenzio rispetto alla gabbia costituita dall’architettura istituzionale europea. Vi è in questo senso una, se vogliamo così chiamarla, duplice normalizzazione del M5S. Da un lato abbiamo quella di più lungo corso, iniziata già dal dopo elezioni del 2018, e quella di strettissima posta, in queste settimane precedenti il voto.
Non dobbiamo stupirci. La normalizzazione del Movimento è in corso da tempo ed è sancita da un punto di vista economico da ciò che si può leggere nel contratto di governo. Nel paragrafo dedicato alla politica fiscale, dopo alcune roboanti affermazioni su una “ridiscussione dei Trattati” e sullo scorporo degli investimenti pubblici dal computo del deficit, punti programmatici mai più nominati una volta al governo, si afferma esplicitamente che il finanziamento delle misure previste nello stesso contratto debba passare attraverso tagli agli “sprechi” e un “limitato ricorso al deficit”.
Per chiudere in bellezza, il Ministro del Lavoro ha aggiunto che è cruciale “tagliare quello che non è ancora stato tagliato, in questi anni di spese inutili”, riferendosi in primo luogo agli enti locali, come se non venissimo da anni di tagli a tutti i principali capitoli di spesa, che si traducono in un continuo peggioramento dei servizi pubblici: una sanità sempre più privatizzata, scuole fatiscenti, ponti autostradali che crollano e una pubblica amministrazione ormai allo stremo. La puoi anche chiamare elegantemente spending review, ma sono sempre e solo tagli, tagli, tagli.
La retorica dei filo-governativi di ogni sorta sui rapporti di forza avversi e sullo strapotere delle istituzioni europee è dunque completamente infondata. Nessuno dei partiti di governo ha mai avuto realmente intenzione di scontrarsi con Bruxelles e Berlino per difendere le condizioni di vita dei cittadini italiani, né prima, né dopo le elezioni.
Il problema è che l’opposizione da sinistra non esiste. O meglio, i principali partiti di opposizione – PD e Forza Italia – sembrano pretendere un’applicazione ancora più rigida e brutale del consolidamento fiscale (ossia i soliti tagli alla spesa pubblica e al welfare per contenere il debito pubblico), criticando perciò da destra il governo sui temi economici.
Finito il teatrino elettorale, l’aria cambierà repentinamente. Perché la linea dell’austerità è già tracciata per il nostro Paese ed il governo gialloverde ha scelto di muoversi in quel solco: ciò significa continuare a ridurre la spesa pubblica, aumentare la pressione fiscale, ridurre i diritti e i salari dei lavoratori e proseguire nella distruzione programmata dello stato sociale.
E’ questo il programma politico che nessun governo agita in campagna elettorale ma che tutti i governi, gialloverdi compresi, pedissequamente eseguono da decenni sotto l’occhio vigile della Commissione Europea e della BCE. C’è una finanziaria lacrime e sangue da scrivere sotto i colpi dello spread.
Siamo ancora immersi nelle contraddizioni emerse alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, quando una maggioranza di italiani si schierò contro i partiti che avevano gestito e somministrato al Paese l’austerità, dal PD a Forza Italia. Lega e Movimento 5 Stelle hanno raccolto quel voto di protesta e lo hanno condotto in un vicolo cieco di promesse mai realizzate e misure tanto appariscenti quanto irrilevanti. Le forze politiche oggi al Governo hanno il compito di depotenziare quel voto di rottura, magari deviando la rabbia sociale dalle istituzioni europee agli immigrati oppure trascinando le istanze di cambiamento nel recinto della compatibilità con la disciplina dell’austerità e del mercato.
Le pagliacciate di Salvini in campagna elettorale ci confermano che la Lega è in difficoltà, e non può uscire da una precisa contraddizione: sta ancora beneficando della rendita maturata alle politiche del 4 marzo 2018, ma non può tradurre in pratica quella spinta al cambiamento. Non può farlo perché è una forza di sistema a tutti gli effetti, ha conteso abilmente a PD e Forza Italia il ruolo di gestore dell’austerità ma ora inizia a temerne le conseguenze politiche e sociali. Perché chi gestisce l’austerità fa crescere disoccupazione, precarietà e povertà, tradisce la volontà di cambiamento che sta maturando in Italia e, prima o poi, ne pagherà il conto.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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