Sembrerebbe antiquariato industriale e spionistico, invece è la realtà quotidiana ed “eterna” in regime capitalistico. I padroni – a loro modo “giustamente” – diffidano dei propri lavoratori. Temono che si rendano conto che stanno loro togliendo la vita fingendo di “dargli un lavoro”, e che dunque si organizzino per resistere collettivamente (ognuno, da solo, non conta un tubo), o addirittura che si “politicizzino” e che quindi, oltre a lottare per i normali diritti (salario, orario, ferie, malattia, riposi, turni, ecc) comincino a intravedere un altro modo di vivere, produrre,scegliere.
Questo ricordo della famose “schedature Fiat” illumina sui rapporti tra industriali e apparati dello Stato, al basso livello dei rapporti con sbirri e questurini, premiati con un “fuori busta” per le informazioni raccolte sui lavoratori al di fuori della loro vita aziendale. Il rapporto dei padroni con lo Stato, al livello delle politiche economiche e industriali, è ovviamente più organico, complesso, e anche i “fuori busta” – quando devono andare a ministri e parlamentari – hanno tutt’altra consistenza.
Ma la natura “organica” di questo rapporto è assolutamente identica. Poi, naturalmente, ci sono da considerare i cambiamenti introdotti dall’evoluzione delle tecnologie. Oggi la Fiat avrebbe risparmaito molto firmato un contrattino di servizio con Facebook, Twitter, Telegram e altri social.
Perché oggi ci schediamo tutti da soli…
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350.000 SCHEDE SULLE OPINIONI POLITICHE E LA VITA PRIVATA DEI DIPENDENTI: QUANDO LA FIAT SPIAVA ILLEGALMENTE I LAVORATORI OTTENENDO INFORMAZIONI A PAGAMENTO DAGLI APPARATI DELLO STATO
Il 24 settembre 1970 Caterino Ceresa intenta causa alla Fiat sostenendo di avere, per anni interi, portato a termine mansioni ben diverse rispetto a quelle previste dal contratto con cui era stato assunto. Inquadrato come fattorino, egli giurava di essere stato occupato prevalentemente come informatore dell’azienda, compito che prevedeva la stesura di relazioni scritte che dovevano servire ad inquadrare “le qualità morali, i trascorsi penali, la rispettabilità delle persone con le quali la società stessa era o doveva entrare in relazione”.
Insomma Caterino faceva la spia.
Il 9 luglio dell’anno seguente il pretore del lavoro di Torino Angelo Converso gira alla pretura penale gli atti del processo, che per Ceresa si chiuse con una sconfitta. Diede però avvio ad un’indagine penale che portò, il 5 agosto, il magistrato Raffaele Guariniello a presentarsi davanti ai cancelli della FIAT con un atto che prevedeva l’accesso all’archivio dei servizi generali. Mancando i funzionari in grado di aprire la cassaforte, Guariniello portò via la parte disponibile e tornò ad inizio settembre.
Nonostante alcuni testimoni avessero notato un particolare affollamento nei giorni precedenti presso l’archivio aziendale, al suo ritorno il magistrato trovò ben 350.000 schede relative ai dipendenti. Molti documenti contenevano dati che potevano provenire esclusivamente dalla procura della Repubblica e dagli uffici di polizia e carabinieri.
Si evinceva che l’attività di spionaggio andava avanti da un ventennio e aveva come scopo quello di valutare l’appartenenza ideologica dei lavoratori (assunti o potenziali), oltre alla loro vita privata, in modo da scartare, isolare e marginalizzare gli individui politicizzati e conflittuali.
Sul banco degli imputati finì subito Mario Cellerino, ex colonnello dei CC, e responsabile della sicurezza aziendale insieme al colonnello Enrico Stettermjer del Sid di Torino, che dalla FIAT percepiva 150.000 lire al mese. Insieme a loro numerosi funzionari della questura di Torino che ricevano puntualmente elargizioni e regali in cambio di informazioni.
Gli imputati si difesero sostenendo che per alcuni reparti era necessario assumere informazioni particolari perché si richiedeva il Nulla Osta di sicurezza, un’abilitazione speciale al trattamento di informazioni e documenti riservati. In realtà il Nos non era richiesto per molti lavoratori, e soprattutto perché pagare per avere dati che a quel punto sarebbero stati dovuti?
I magistrati chiesero di esaminare i dipendenti che effettivamente avevano bisogno del Nos, ma a quel punto il Presidente del consiglio Andreotti oppose il segreto di stato. Nel 1978 la sentenza di primo grado condannò 36 imputati, nessuno di loro però scontò la pena perché prima dell’appello scattò la prescrizione.
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