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“Il ricatto su Taranto è un ricatto su tutto il paese”. Adesso alternative in campo

“La rassegnazione non è una opzione considerabile”. All’assemblea operaia chiamata dall’Usb a Taranto intorno alla vicenda dell’ex Ilva le idee sono chiare, fino alle conseguenze più impegnative.

La sala nel pomeriggio di giovedi si è riempita di lavoratrici e lavoratori dell’ex  Ilva ma anche venuti anche da altri stabilimenti siderurgici e industriali di altre città. Dalla lontanissima Trieste a Terni, da Piombino a Melfi. Un po’ ovunque si è alle prese con crisi industriali, ristrutturazioni dolorose, svendite a multinazionali straniere, minacce di chiusure. E’ uno spaccato del paese reale e del suo sistema industriale che si va desertificando e centralizzando, come ricorda Stefano Zai di Parma, intorno alle nicchie produttive dell’industria 4.0 ma che azzera tutto il resto, soprattutto nel Meridione.

Tra gli operai e i delegati Usb dell’ex Ilva c’è l’aria pesante della consapevolezza di aver lanciato una sfida avanzata invocando quella “chiusura delle produzioni inquinanti” che va in direzione opposta a chi in questi anni ha giocato spregiudicatamente sulla contrapposizione tra lavoro, salute pubblica e ambiente.

L’assemblea viene introdotta da Francesco Rizzo, quadro operaio storico dell’ex Ilva e coordinatore dell’Usb tarantina. E non si perde in giri di parole. “A cosa serve lo scudo penale chiesto da ArcelorMittal. Se lo chiedi direttamente ai politici non sanno come e cosa rispondere. La risposta ce l’abbiamo noi – dice Rizzo – serve a non andare in galera anche se continui a far lavorare dentro una fabbrica che sta cadendo a pezzi ed in cui si rischia la vita. Rizzo insiste nel voler chiarire un aspetto importante: “Noi abbiamo chiesto la nazionalizzazione dell’ex Ilva e non solo l’intervento pubblico con lo Stato che mette solo i soldi. Il problema è pianificare la chiusura e la riconversione e i privati non vorranno mai fare. Per impedirlo vengono invocate le regole europee che vietano gli aiuti di Stato ma sappiamo che non è vero, perché in altri paesi lo hanno fatto e lo abbiamo verificato”.
Sasha Colautti viene da Trieste. Anche lì la situazione è pesante e ci sono ormai 6 crisi industriali – dalle Ferriere alla Flextronics, dalla Wartsila alle cartiere Burgo – in cui la politica nazionale e locale sono latitanti. L’inquinamento pesa anche a Trieste. Nel quartiere di Servola dove ci sono le Ferriere hanno chiuso i giardini pubblici e quelli delle scuole. La stessa proprietà vuole chiudere l’area a caldo, ma senza una politica industriale che preveda altro non ci sono soluzioni se non quelle speculative sui fabbricati industriali da cedere magari per l’allargamento della banchina portuale. Se non si pensa ad un altro modello di sviluppo c’è solo la chiusura e basta,

Raffaele Cataldi è un operaio dell’Ilva ma è anche un attivista del Comitato Liberi e Pensanti, quelli che nel 2012 ruppero l’incantesimo contestando il comizio della manifestazione sindacale chiamata contro la decisione della magistratura di fermare le produzioni inquinanti. “La fabbrica si sta chiudendo da sola perché cade a pezzi” e fa riferimento come modello all’accordo di programma firmato a Genova dove c’è un altro stabilimento dell’Ilva. Sono in molti a chiedersi perché quell’accordo si fece a Genova e non anche a Taranto, come se nel Sud e a Taranto ci fossero dei cittadini di serie B. Sulla stessa lunghezza d’onda insiste anche Daniela Spera di un’altra associazione ambientalista. Anche lei parla di programmazione della chiusura della fabbrica. “Negli anni scorsi quando fornivamo i dati sulla salute, la mortalità e l’inquinamento ci accusavano di essere allarmisti. Adesso, finalmente siamo uniti sugli stessi obiettivi”.

Sergio Bellavita dell’Usb suona l’allarme. “Ad ArcelorMittal se dai un dito si prende tutto il braccio. “Su questa vicenda si gioca una partita più ampia, inclusa quella di un nuovo tipo di intervento pubblico nell’economia, soprattutto al Sud”. Torna spesso la parola ricatto, per Bellavita quello sull’Ilva e come e forse più grave di quello di Marchionne sugli stabilimenti Fiat nel 2010.

Luciano Staccioli dell’Alitalia sottolinea come la vicenda dell’Ilva e quella di Alitalia abbiano molto in comune, incluso il tema della sicurezza che sta diventando pesante anche in questo settore e che ha portato al licenziamento di un delegato Usb. All’Alitalia c’erano 23mila lavoratrici e lavoratori ed ora sono 11mila, c’erano 230 aerei ed ora 118 eppure i passeggeri sono raddoppiati. “Abbiamo subito 11mila licenziamenti, tre ristrutturazioni e le perdite sono aumentate. Non è vero che lo Stato ha continuato a buttare soldi in Alitalia, ha speso 4 miliardi ma di fatto solo per finanziare i licenziamenti”. I gruppi stranieri come Delta hanno messo a disposizione solo 100 milioni per entrare in Alitalia, mentre Lufthansa vuole subito 3mila licenziamenti. Atlantia vuole la salvaguardia delle concessioni autostradali e di quelle aeroportuali, inclusa la quarta pista sui terreni adiacenti a Fiumicino acquistati a suo tempo dai Benetton dopo la privatizzazione di Maccarese da parte dell’Iri. “Noi chiediamo una nazionalizzazione  e una sorta di nuova “Iri 4.0” e, contestualmente, la revoca delle concessioni autostradali e aeroportuali ad Atlantia”.

Giorgio Cremaschi ha salutato il coraggio di aver saputo costruire un fronte comune sull’Ilva lì dove prima c’erano le divisioni. “L’Ilva è un rischio di morte e la morte sia per chi ci lavora dentro sia per chi sta fuori”. Se un magistrato, un sindacato o i lavoratori avessero fermato il lavoro alla ThyssenKrupp di Torino due giorni prima della strage di operai nel 2007, sarebbero stati messi sotto accusa come accade adesso all’Usb dell’Ilva afferma Cremaschi, secondo il quale “la vicenda dell’Ilva può diventare anche un’occasione per Taranto e il paese per cominciare a cambiare le priorità, a pianificare la riconversione ecologica che i padroni privati e le multinazionali non faranno mai”.

Per Daniele Pica, che viene da Terni e lavora alla Acciai Speciali di proprietà della ThyssenKrupp, “quella della Usb non è solo una scelta coraggiosa ma è anche una visione”. Siamo vittime di “una classe politica di cialtroni che stanno facendo passare il paese da produttore a trasformatore di prodotti e quindi facendola diventare dipendente dall’estero”, per questo c’è bisogno della nazionalizzazione, “quando lo dicevamo alcuni anni fa ci prendevano per matti”.

Pierpaolo Leonardi dell’esecutivo nazionale Usb mostra un manifesto di solidarietà con gli operai dell’ex Ilva da parte dei sindacalisti del Lab degli stabilimenti ArcelorMittal nei Paesi Baschi. Per Leonardi l’Usb dell’Ilva ha fatto un miracolo sia per la fabbrica che per la città, “ha messo gli operai davanti ad una prospettiva difficile ma vera, ossia chiudere le produzioni inquinanti”. Ricorda come due iscritti Usb all’Ilva e uno agli Aeroporti di Roma siano stati licenziati recentemente perché hanno fermato il lavoro denunciando le minacce alla sicurezza. Secondo Leonardi lo sciopero convocato per oggi, venerdi 29 novembre, deve far saltare l’accordo raggiunto tra governo e ArcelorMittal, “gli accordi a perdere non possono più essere accettati”. Non solo. “La contraddizione capitale/natura oltre che quella capitale/lavoro, sta dentro la visione dell’Usb, per questo è stato convocato lo sciopero in occasione del Friday For Future. Sul nodo della discussione ossia la nazionalizzazione, Leonardi ci tiene a precisare che occorre stanare Governo e Parlamento sulla programmazione industriale. “Il ministro Patuanelli ad una domanda se volesse per caso una nuova IRI ha risposto: perché no? E lo abbiamo invitato a questo convegno, anche perché al Ministero dello Sviluppo Economico ci sono quasi 160 tavoli di crisi industriali aperti anche da anni e senza soluzioni. Su questo ormai ci vuole una proposta complessiva sulla quale intendiamo aprire il confronto e lavorare da subito”.

Intervengono poi operai e delegati dalla Fca di Melfi e delle Acciaierie di Piombino (passate all’indiana Jindal), Riadh della Logistica, un operaio della Flextronics che dichiara esplicitamente come “la rassegnazione non è più una opzione”. Interessante l’intervento di Stefano Zai da Parma che ha decostruito due narrazioni tossiche: quella sulla concentrazione dello sviluppo di alcune aree del Nord (Emilia, Lombardia, Veneto) che però terziarizza al ribasso il resto del paese e quella sulle magnificenze dell’industria 4.0. L’automazione, a livello mondiale, tra il 2015 e il 2020 ha distrutto 7 milioni di posti di lavoro e ne ha creati solo due. Secondo una proiezione uscita su Il Sole 24 Ore, l’industria 4.0 in Italia tra il 2017 e il 2035 porterà alla scomparsa di 3,5 milioni di posti di lavoro. “Se non si istituisce un reddito sociale vero non legato obbligatoriamente alla prospettiva lavorativa, esploderà la disoccupazione tecnologica”.

Francesco Rizzo ha tirato le conclusioni dando appuntamento a tutti alle 5.15 di oggi davanti alle portinerie dell’Ilva per invitare allo sciopero e poi in piazza per il corteo dello sciopero generale. Il corteo operaio, significativamente, confluirà nella piazza conclusiva insieme a quello degli studenti di Friday For Future. Anche questo è un segno della svolta possibile, a partire da Taranto ma per tutto il paese.

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