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Le parole non bastano. Cinque misure per fermare la guerra di Trump

L’assassinio del generale iraniano Soleimani e dell’irakeno Muhandis presso l’aeroporto di Baghdad ha aperto il 2020 peggio di quanto non si fosse chiuso il 2019. Venti di guerra soffiano oggi con più forza.

Il fatto che il mandante dell’omicidio sia lo stesso presidente Trump peggiora il quadro. L’uomo che siede alla Casa Bianca non è però un folle, come spesso viene rappresentato, né è impazzito il complesso militare-industriale-finanziario statunitense che è alle sue spalle. Perseguono interessi di lunga data e lo fanno oggi in maniera più spregiudicata che in passato perché sanno che l’egemonia USA è in crisi.

Trump e il complesso militare-industriale-finanziario statunitense non agiscono in base a ciò che è “giusto”, sulla base della morale, ma perseguendo i loro interessi strategici, opposti a quelli dei popoli e dei lavoratori di tutto il mondo. Fanno ciò che vogliono e ciò che possono. A poco quindi serviranno i vari appelli “alla moderazione” (Giuseppe Conte e Josep Borrell, Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune), “alla responsabilità” (Conte e Di Maio), “al dialogo” (ancora sia Conte che Di Maio) o dichiarare “grande preoccupazione” (il niente mischiato col nulla di Zingaretti).

Su quel che vogliono possiamo intervenire poco. Su “ciò che possono”, invece, bisognerebbe intervenire, restringendo i limiti della loro iniziativa e ostacolando l’escalation verso la guerra guerreggiata.

Per provare a fermare Trump e il suo criminale disegno di destabilizzazione del Medio Oriente servono fatti, non parole.

  • Bisogna chiudere le basi militari USA in Italia. Parliamo di 59 basi presenti su tutto il territorio nazionale e che oggi rappresentano un problema per la sicurezza nazionale (oltre che per la tanto declamata “sovranità nazionale”). Nei trasferimenti di truppe e armi verso l’Iraq, la penisola italiana sarà usata come piattaforma logistica. Da Aviano (Pordenone) a Camp Darby (Pisa) svolgeranno un ruolo di prim’ordine per il dispiegamento delle truppe statunitensi in Medio Oriente;
  • In secondo luogo, l’attacco USA, a prescindere da dove abbia avuto origine, mette a repentaglio l’incolumità dei popoli del Medio Oriente e di tutti coloro che vi risiedono. Per questo bisogna avviare il prima possibile il ritiro dei contingenti militari impegnati in missioni all’estero. In primis da Iraq e Kuwait, dove 926 militari sono impegnati nell’addestramento di colleghi irakeni. Ma anche dall’Afghanistan, in cui truppe italiane sono impegnate fin dall’inizio del lancio della “guerra al terrorismo” di Bush. E i militari a capo della missione UNIFIL in Libano (1.100 soldati italiani su un totale di circa 10.000 uomini) sono stati avvisati dell’attacco statunitense, considerato che il Libano è uno dei fronti caldi del conflitto già in corso? Per non parlare dei 300 uomini impegnati a Misurata, in Libia, ma lì apriremmo un’altra lunga pagina, alla faccia della Libia “porto sicuro”;
  • Impedire il trasferimento delle testate nucleari dalla Turchia all’Italia. Nel ridisegnamento degli scenari regionali, si è aperta l’ipotesi del trasferimento di testate nucleari dalla Turchia verso altri siti, tra i quali Aviano (Pordenone) dove, in accoppiata con la base di Ghedi (Brescia), sono già stanziate 80 bombe atomiche. Washington, infatti, non considera più la Turchia di Erdogan un alleato così affidabile e vuole garantirsi da possibili problemi futuri. Tra i papabili siti destinatari dell’armamentario nucleare figurano quelli italiani.
  • Congelare l’acquisto degli F35. La promessa elettorale del M5S si è palesata per quello che era: un grande inganno. L’Italia continua infatti ad autorizzare una spesa miliardaria per armi difatto inutili alla sicurezza nazionale e che sono mostra solo della subalternità del nostro Paese rispetto agli USA, oltre che del disprezzo degli interessi popolari, dal momento che i soldi buttati per acquistare queste armi potrebbero essere usati per mettere in sicurezza il territorio o per servizi sociali (istruzione, sanità, lavoro, ecc.);
  • Uscire dalla NATO. L’iniziativa terroristica degli USA mostra una volta di più che la NATO è un soggetto del passato. Per il nostro Paese comporta solo la “costrizione” ad aumentare le spese militari e a dispiegare militari in giro per il mondo per la tutela di interessi commerciali, finanziari e industriali delle classi dominanti a stelle e strisce ed europee. Consegnare la NATO alla storia sarà un momento di festa per i popoli del mondo.

Nessuna di queste misure è purtroppo all’ordine del giorno. Perché le nostre classi dirigenti possono parlare quanto vogliono di “sovranità” e “dignità nazionale”, ma si rivelano sempre prone e subalterne. Dalla Libia all’Iraq, passando per la guerra di Erdogan in Siria del Nord, arrivando ora all’attacco terroristico degli USA contro il generale Soleimani in un paese terzo (l’Iraq), abbiamo esempi su esempi del fallimento di una classe dirigente incapace di elaborare una propria politica estera e che si è ormai abituata a elemosinare e a scodinzolare dinanzi al padrone. Non accorgendosi, però, che non c’è nemmeno più l’osso.

Solo la mobilitazione popolare, sulla base di quella già nata negli Stati Uniti e in minor misura in Gran Bretagna, può costringere i governi ad agire a favore della pace e a fermare piani criminali che non possono condurre ad altro che a morte per i nostri popoli, qualunque sia la bandierina disegnata sull’elmetto, e a tasche piene per chi, in una fase di crisi dei profitti, cerca di gonfiare quelle già piene con soldi che vengono letteralmente fuori dal sangue dei nostri.

Per questo Potere al Popolo! fa appello affinché anche qui possa svilupparsi una mobilitazione antimilitarista, insieme a tutte le forze che si oppongono alla guerra e al terrorismo statunitense: dalla costruzione di momenti di analisi a manifestazioni di piazza, oltre che di sostegno a chi anche in questi mesi, come i portuali genovesi -ma anche francesi e baschi – che hanno scioperato contro il carico di armi destinate all’Arabia Saudita, si è opposto ed è riuscito a fermare il business della guerra.
La pace è desiderio profondo del nostro popolo e della nostra gente. A tutte e tutti noi il compito di dare voce e gambe a questo sentimento collettivo.

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