L’anniversario della fondazione del Partito Comunista d’Italia è, da sempre, una occasione di rivendicazione orgogliosa di quell’atto ed anche della storia che né è derivata.
Tale rivendicazione o meglio, tale riflessione, è un atto politico utile per contrastare l’ondata culturale, politica ed anche penale che, in Italia come nel resto d’Europa, vorrebbe cancellare l’opzione comunista dall’ordine delle cose possibili. Nel contempo, però, se i comunisti vogliono tornare ad incarnare una funzione d’avanguardia, dinamica ed innovativa – come è presupposto del marxismo e del materialismo storico/dialettico – non devono ridursi a mero elemento nostalgico o, peggio ancora, ad una stanca riperpetuzione di un ricco passato che non è possibile rieditare nelle stesse identiche forme e modalità.
Quindi – per restare al nocciolo delle “ragioni dei comunisti” – se come da più punti di vista viene confermato, anche da parte delle teste d’uovo dei poteri forti del capitale internazionale, la crisi sistemica resta un elemento certo e strutturale di questa congiuntura (anche se, per essere corretti sul piano dell’analisi teorica, non siamo ancora di fronte alla crisi finale del Modo di Produzione Capitalistico) i comunisti devono saper lavorare per costruire una soggettività organizzata adeguata alle sfide di questa fase ed agli sviluppi storici in corso. Un arduo compito adeguato alla realtà articolata e complessa che si presenta a livello mondiale e, per quanto ci riguarda più da vicino, a livello nazionale ed europeo.
Ripercorrendo la vicenda, non solo del vecchio PCI, delle varie Rifondazioni Comuniste ma dell’insieme della variegata “area rivoluzionaria” possiamo ipotizzare che quello della Soggettività è stato il vero “punto di crisi” dei comunisti (specie nell’ultimo quarto del XX secolo) a causa del prevalere di una visione non dialettica della realtà che non ha consentito di comprendere pienamente i meccanismi profondi del capitalismo (a partire dall’enorme sviluppo delle forze produttive) e le sue possibilità di recupero e di sussunzione ad ampia scala.
Un limite che si è rivelato esiziale e nefasto per prospettare il superamento del capitalismo non solo globalmente ma a partire dai punti in cui era avvenuta la rottura rivoluzionaria.
Su alcuni snodi di tale riflessione abbiamo posto alcune domande al compagno Mauro Casadio che ci sembra abbia, ulteriomente, precisato alcuni punti fermi dell’analisi e del profilo teorico/politico della nostra Organizzazione.
21 gennaio 1929, Livorno, i delegati, che in dissenso con la posizione del Partito Socialista avevano lasciato il Teatro Goldoni, si riunirono al Teatro San Marco e costituirono il Partito Comunista d’Italia (sezione italiana dell’Internazionale Comunista). L’Italia di quegli anni era attraversata – come accadeva ed era accaduto anche in altri paesi europei, Germania ed Ungheria in primis – da potenti moti sociali e politici (la Rivoluzione Spartachista, i Consigli Ungheresi, il Biennio Rosso e i tumulti annonari in Italia), l’eco dell’Ottobre Sovietico era vivo e rappresentava un esempio di rivoluzione possibile. In quel contesto nacque una enorme storia che con strappi, rotture, revisioni e derive di ordine teorico, culturale e politico è terminata – ufficialmente – il 3 febbraio del 1991 con lo scioglimento del PCI e la nascita, in contemporanea, del Partito Democratico di Sinistra e del Movimento della Rifondazione Comunista. Cosa è rimasto oggi di quella storia, non tanto sul versante delle residuali “soggettività comuniste”, ma – più precisamente – per ciò che attiene alle odierne Ragioni dei Comunisti (in senso storico ed immediato) in Italia (ed in Europa) in questo primo scorcio di XXI° Secolo?
Il movimento comunista è stato ed è un movimento mondiale sia come espressione concreta che come “fine” soggettivo, in questo senso il movimento comunista non è affatto scomparso ed è presente ancora in forme varie, dalla Cina a Cuba ai moltissimi partiti e movimenti che persistono internazionalmente. Inoltre dentro la situazione attuale le “ragioni dei comunisti” riemergono a causa della crisi del presente modo di produzione che sta producendo una radicale crisi di egemonia del capitale e delle borghesie. Questo non significa che siamo di nuovo dentro una fase rivoluzionaria ma le contraddizioni del nemico di classe per ora non trovano soluzione.
Cosa diversa è se pensiamo all’Unione Europea e all’Italia in quanto statualità imperialiste in crisi ma che mantengono ancora una presa egemonica sulla realtà di classe, fosse questa a carattere “riformista” oppure “sovranista”. Dunque una lettura dei processi degenerativi delle forze comuniste non può prescindere da questa condizione storica al di là dei giudizi soggettivi pessimi che possiamo dare dei gruppi dirigenti che provenivano dal PCI e dalla sinistra extraparlamentare. La differenza tra i due momenti di rottura storica sta esattamente nello sviluppo delle società imperialiste, la prima di carattere rivoluzionario che prese avvio dalla prima guerra mondiale e la seconda di segno opposto che viene prodotta dalla crisi dell’URSS e dall’affermazione, effimera come oggi possiamo osservare, dell’imperialismo USA.
I compagni che hanno dato vita all’esperienza formale della Rete dei Comunisti nel complicato passaggio politico e temporale tra l’89 (crollo del Muro di Berlino ed implosione del “campo socialista”) e il ’91 (scioglimento del PCI) decisero di non aderire al Movimento (e poi Partito) della Rifondazione Comunista il quale – ed è utile ricordarlo per i lettori più giovani – era una compagine di tutto rispetto, dal punto di vista del peso politico e della composizione militante, rispetto a quella che oggi sopravvive stancamente. Come argomentaste questa vostra scelta controcorrente rispetto alla quasi totalità di ciò che restava della “sinistra rivoluzionaria” di derivazione comunista e/o movimentista la quale decise di confluire in tale contenitore?
Più che argomentazione possiamo parlare di convinzione, infatti qualsiasi cosa si potesse dire all’epoca la scelta era obbligata in base al meccanicismo che vive nella testa dei militanti di sinistra, ovvero che quella nuova esperienza era un nuovo rilancio al di là dell’analisi della fase e della concretezza di quei gruppi dirigenti che si andavano formando. La nostra convinzione di fondo era quella che dopo una sconfitta storica di tale dimensione non potevano esistere soluzioni “organizzativistiche” per di più elettoralistiche. Una trasformazione che si fece in tempi rapidissimi con il passaggio da “movimento” per la Rifondazione Comunista a PRC tout court.
Poi avevamo un’altra convinzione che ci veniva dall’esperienza politica concreta degli anni precedenti ovvero non ci “fidavamo” del gruppo dirigente proveniente dal PCI che emerse all’epoca, a cominciare da Cossutta, e non ci convinceva anche la scelta di Democrazia Proletaria prodotta più dalla crisi di quella organizzazione che da una necessità ineluttabile di entrare dentro il PRC. Negli anni successivi poi queste convinzioni non hanno potuto che rafforzarsi di fronte all’evoluzione concreta di quella esperienza.
Da alcuni decenni la Rete dei Comunisti mantiene viva la possibilità di costruire una opzione comunista organizzata in una fase politica generale in cui i rapporti di forza tra le classi sono fortemente a favore del capitalismo e dove gli elementi culturali, politici ed organizzativi della coscienza di classe sono frammentati, sconnessi tra loro e subalterni all’ideologia dominante. Tale condizione oggettiva richiede una convinta innovazione teorica che attiene al processo di definizione e costruzione della RdC. La tattica dei “tre fronti della lotta di classe” è una articolazione politico/pratica che la RdC sperimenta e incarna dentro il gorgo del conflitto e delle sue contraddizioni. Un vero e proprio compito inedito che segna – per davvero – un tratto di discontinuità e di differenziazione con quanti ritengono la militanza comunista come una semplice riproposizione del “programma storico” o, peggio, una sorta di “orizzonte futuribile” sempre più sfumato ed indefinito. Come è possibile lavorare per ridurre lo scarto tra le Ragioni e la Forza dei Comunisti evitando il rischio – anche inconsapevole – del puro continuismo e/o identitarismo senza prospettive?
Nel contesto attuale che abbiamo definito con il Forum dello scorso 26 Ottobre sullo “stallo degli imperialismi”, pensiamo che queste caratteristiche siano una fase storica e non contingente. Il modo per riconnettere la Ragione e la Forza dei comunisti è quello della sedimentazione delle forze che non riguarda principalmente l’aspetto organizzativo in quanto ha un peso determinante soprattutto la capacità di lettura teorica della fase e non è un processo “graduale” e progressivo ma è soggetto a balzi continui in base alla manifestazione delle contraddizioni generali ancora prima di quelle specifiche o nazionali. I tre fronti della lotta di classe ci sembrano l’ambito, oggi più credibile di ieri in base alla sconfitta della “sinistra”, in cui operare per riconnettere i due termini assolutamente simbiotici per concepire una alternativa sociale. Comunque questa affermazione per noi è sempre subordinata alla verifica concreta della realtà e non riteniamo di aver concepito una “formula” valida in tutte le condizioni..
Nell’ultimo anno la RdC ha avviato una riflessione (utilizzando il lessico classico potremmo definirla una Lotta Ideologica) afferente lo “stile di lavoro dei comunisti” sia rispetto al variegato intervento nella classe ma – soprattutto – a proposito del Metodo di lavoro riguardante la visione del mondo, l’analisi della società e la costruzione della soggettività di classe e comunista. E’ evidente che questa ricerca è finalizzata al tentativo di adeguare l’Organizzazione alle nuove, veloci e complesse sfide della contemporaneità capitalistica nell’epoca della competizione globale interimperialistica. Esistono – a tuo parere – le condizioni teoriche per andare più a fondo nell’analisi e nella comprensione della relazione tra i dati strutturali dello sviluppo capitalista, le sue relazioni sociali ed i riflessi ideologici che questo dato produce non solo nella testa degli individui ma come ideologia/visione del mondo che agisce politicamente e si afferma nella società?
Questo è un terreno obbligato dell’elaborazione teorica in quanto una Organizzazione/Partito cresce e si afferma lavorando concretamente nelle contraddizioni materiali ma questa costruzione non può prescindere dai caratteri della soggettività collettiva ed individuale. Da qui la necessità di concepire un progetto di costruzione dell’Organizzazione ma anche la necessità di fornire ai militanti un metodo di analisi e di lavoro adeguato, altrimenti si costruisce ben poco. Questo aspetto è stato uno dei punti di forza che ha permesso al PCI di affermarsi come forza comunista principale in Occidente, ciò ovviamente al netto dei giudizi politici sulle scelte strategiche fatte all’epoca.
Questa “cura” da avere anche per i singoli militanti non è solo un’affermazione di principio ma in un’epoca dove l’egemonia culturale è maledettamente pervasiva – tramite le molteplici forme della comunicazione – non possiamo non porci la questione centrale della formazione di quadri all’altezza della situazione o quanto meno non predisporci, individualmente e collettivamente, in tale direzione.
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