Quando una popolazione viene colpita da una sciagura – causata dalla natura, o da errori umani – generalmente scatta subito la solidarietà dell’opinione pubblica internazionale. Chi di voi non ha provato una stretta al cuore per i bambini congolesi infettati da Ebola o, andando più indietro nel tempo, per la carestia in Biafra. Chi non si è commosso di fronte al disastro di Fukushima?
Il popolo cinese che in queste ore sta combattendo contro il «coronavirus» al contrario non sembra degno di empatia, né di aiuti in misura della sfida che sta affrontando. Ai cinesi è stato riservato l’isolamento internazionale e lo stigma degli untori.
Ma la Repubblica popolare del 2020 – si potrebbe obiettare – è un gigante globale e i suoi 1,4 miliardi di cittadini sempre in movimento sono pronti a infettarci, dunque più che legittimo anzitutto sbarrargli l’accesso alle nostre città.
Le cose non stanno così. Partiamo da un indispensabile presupposto: il «2019-nCoV» – contro il quale non è stato ancora trovato un vaccino – è scarsamente letale, molto meno dell’influenza stagionale, anche se piuttosto contagioso. Per evitare la sua diffusione, le autorità di Pechino hanno vietato tutti i viaggi di gruppo, all’interno e all’esterno della Cina. Inoltre la città di Wuhan e la provincia dello Hubei epicentri del morbo, sono stati chiusi al mondo esterno e pacificamente invasi da medici e personale sanitario, e i dati ufficiali mostrano una limitata diffusione al di fuori di quell’area ormai isolata.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato che non c’era alcun motivo ragionevole per chiudere ai voli da/per la Cina. «Non esiste alcuna ragione per misure che interferiscono con i viaggi e con il commercio internazionale. Invitiamo tutti i paesi ad applicare decisioni coerenti e basate su fatti», ha dichiarato l’altro ieri il capo dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus.
La combinazione delle limitazioni agli spostamenti di popolazione, prevenzione e cura messe in atto dal governo cinese con tutti gli strumenti a disposizione negli aeroporti internazionali (termoscanner e altri) bastano – secondo l’Oms – a prevenire il contagio.
Eppure le reazioni internazionali sono state dettate dal terrore, irrazionale, di una pandemia.
Tra i più solerti e rapidi a chiudere ai voli da/per la Cina si segnala il governo di Giuseppe Conte: il camaleontico presidente del consiglio che nella versione precedente (giallo-verde) aveva apposto – unico paese del G7 – la firma a un protocollo d’intesa sulla nuova via della Seta con la Cina, nella sua colorazione attuale (giallo-rosé) ha chiuso subito tutti i collegamenti (Fiumicino ha 12 collegamenti diretti con la Cina, primo in Europa) facendo arrabbiare Pechino. Eppure l’esecutivo può vantare quale capo di gabinetto del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, un signore, Ettore Sequi, che dovrebbe conoscere bene la Cina e la sensibilità delle autorità cinesi in simili circostanze, essendo stato Ambasciatore a Pechino.
A fare quello che andava fatto – offrire cioè la disponibilità, in segno di amicizia, a inviare a Pechino un aereo carico di mascherine e occhiali protettivi) ci ha pensato il Vaticano, ironia della storia a quanto pare tra i principali sponsor di Conte.
Sia come sia, l’Italia del professorino Conte che pende sempre più verso il PD questa volta si è allineata subito agli Stati Uniti. A questi ultimi l’altro ieri Pechino ha rimproverato che «tutto ciò che hanno fatto finora, può solo creare e diffondere paura, e costituisce un cattivo esempio. Non ci hanno fornito alcun aiuto sostanziale», ha protestato il ministero degli Esteri cinese.
Mentre la paura del contagio è alimentata un po’ ovunque da media irresponsabili.
E gli atti di intolleranza e razzismo nei confronti di cinesi si diffondono più del virus, in Italia, Germania, Gran Bretagna…
Riemerge prepotentemente una sinofobia che non poteva trovare di meglio per alimentarsi di un virus – esploso in un mercato in cui si vendevano anche serpenti e pipistrelli di cui a Wuhan mangiano la zuppa – che riporta in auge nell’immaginario collettivo il cinese arretrato, che arriva da «un altro mondo», con abitudini e tradizioni apparentemente assurde.
Tuttavia da anni ormai nelle città di tutto il mondo – come abitanti, residenti di lungo periodo, turisti, imprenditori – ha fatto la massiccia comparsa un cinese di classe media, globale: giovani di seconda generazione che frequentano con profitto scuole e università e che hanno successo nel mondo del lavoro, animati da una cultura che pone contemporaneamente l’accento sull’essere e tiene in gran conto la famiglia, il clan gli affari. Vivono con noi da qualche decennio e finalmente qualcuno di noi inizia ad accorgersi del loro segreto: hanno una marcia in più, credono nel mito del self made man e sono disposti al sacrificio per raggiungere il successo.
E forse è proprio questo che ai nostri occhi di occidentali è inconcepibile. Il successo di un popolo che abbiamo colonizzato, drogato, saccheggiato durante il cosiddetto «secolo dell’umiliazione» – quando i vaporetti americani percorrevano il Fiume azzurro carichi di reperti archeologici trafugati nell’interno della Cina, gli inglesi inondavano di oppio il Paese e perfino gli italiani riuscivano a concedersi una «concessione» a Tianjin -, un popolo considerato dunque fino a tempi recenti «inferiore», appare ai più intollerabile. A maggior ragione se questo successo si realizza sotto un regime che viene raffigurato come l’antitesi della nostra democrazia, sempre e comunque «superiore» (nonostante goda di pessima salute).
Altro che solidarietà, agli occhi dei razzisti occidentali il virus dei mangia-pipistrello rimette il cinese nel posto che gli spetta nella storia.
*Cinaforum.net
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