Il Covid19 sta sterminando chi ha dai settant’anni in su, la mia generazione e quelle più vicine. Generazioni nate a cavallo della seconda guerra mondiale, che ne hanno incontrato le sofferenze, le distruzioni, i morti, le lotte o direttamente, o subito dopo nei ricordi dei genitori che ogni tanto si lasciavamo scappare qualche frase, magari mentre si parlava d’altro.
Io, che sono nato nel dopoguerra, ho conosciuto questa parola per un gioco stupido che avevo imparato in strada – allora i bambini ci vivevano – da miei compagni più grandi. Facevano con la bocca il rumore sempre più forte degli aerei che si avvicinavano: uuuuuuuuu.
Mi era sembrato divertente e poi ero bravo a riprodurre quel suono ed una sera lo provai a tavola. Un urlo disperato di mia madre – smettila!- mi ammutolì. Seppi poi che ad altri bambini non era andata così bene, il loro rievocare il rumore dei bombardieri in arrivo era stato interrotto da solenni scapaccioni.
La mia generazione ha visto il mondo cambiare forse come poche altre. Quando ero piccolo il solo mezzo di comunicazione della famiglia con il mondo, oltre ai giornali, era la radio. Telefoni e televisione erano un lusso che sarebbe arrivato dopo, già con l’adolescenza.
La mia generazione non è stata determinante per la ricostruzione del paese, realizzata da quelle precedenti. Però la mia generazione è stata decisiva, questo sì, per la costruzione sociale civile e culturale.
Quando ero adolescente la moralità dominante era ancora quella medioevale. La donna era sottoposta all’uomo, vigeva persino il diritto di ucciderla se “traditrice dei doveri di matrimonio”. E divorzio, aborto, omosessualità, erano proibiti persino come parole, la maledizione ed il sospetto incombevano su chi osasse parlarne senza usare termini spregiativi.
La scuola era un privilegio da cui erano esclusi i figli degli operai e dei contadini. Il primo esame era in seconda elementare e si poteva essere bocciati, ricordo miei compagni di classe che lo furono. Poi dopo l’esame di quinta elementare c’era la vera spartizione sociale.
Per entrare nella scuola media – dove si studiava il latino e solo attraverso la quale si poteva accedere al liceo ed all’università – si doveva superare un difficile esame di ammissione, pubblico però senza alcuna preparazione pubblica.
Così le famiglie dovevano pagare un’insegnante privata e quelle che non potevano permetterselo mandavano i figli alla scuola di avviamento, che dopo tre anni spediva direttamente al lavoro. La maggioranza della mia classe seguì quella via e a tredici o quattordici anni molti di quei ragazzi erano già apprendisti operai, o semplicemente garzoni, così si chiamavano, in qualsiasi altro posto di lavoro.
Nei luoghi di lavoro vigeva un autoritarismo padronale che si sommava a quello che si era riaffermato in tutta la società, dopo il breve dilagare di libertà seguito al 25 aprile del 45. Giuseppe Di Vittorio lo definì il ritorno del fascismo nelle fabbriche. E anche se il paese cresceva e diventava diverso, lo sfruttamento era gigantesco, come la miseria che spingeva milioni di persone dal Mezzogiorno verso il Nord, ove si accelerava lo sviluppo industriale.
Il mondo cambiava e la politica, la grande politica. entrava nelle vite della mia generazione da tanti lati. Dal conflitto delle sinistre – comunisti e socialisti – con la democrazia cristiana, che attraversava tutto il paese e che prima o poi ti coinvolgeva.
Dallo sconvolgimento del mondo, dove crollavano gli imperi coloniali e avanzava il socialismo; dalle lotte di liberazione, Cuba, l’Algeria, il Vietnam, che ti chiedevano di prendere posizione. Dal cambiamento dei costumi che avanzava e minava l’Italia bigotta, familista e autoritaria che ancora dominava.
Magari si cominciava con la musica, il rock contro il melodico, e poi si finiva in piazza. Quelli più grandi di noi lo fecero già nel 1960 scendendo in strada con le loro magliette a righe contro il governo filofascista di Tambroni e furono uccisi a Reggio Emilia, in Sicilia.
Poi ci furono il ‘68 ed il ‘69, le grandi lotte degli anni Settanta, che davvero trasformarono il paese, spazzarono via tutto l’autoritarismo che ancora lo permeava e provarono a costruire una società giusta.
Negli anni ‘80 cominciò il riflusso, il giro di boa della storia, e in diversi decenni di restaurazione molte conquiste sociali e democratiche furono cancellate. Nel nome del mercato e dell’impresa, che si presentavano come moderni, rivoluzionari persino.
Una parte della mia generazione fu catturata da questi tempi nuovi e se ne fece complice e artefice. In molti però resistemmo, per fermare ciò che vedevamo come il ritorno al passato, mentre si presentava come il futuro.
Così da rivoluzionari in fondo diventammo conservatori, e così fummo definiti e dileggiati. Lottammo tanto, ma perdemmo, il mondo diventò ciò che non avremmo mai voluto che fosse, dominato dalla ricchezza e dal denaro.
Prima di restare chiuso in casa, girando per Brescia mi capitava spesso di incontrare operai con cui avevo lottato negli anni Settanta e Ottanta e tutti mi facevano lo stesso discorso: quanti scioperi quante lotte e ora si è perso tutto, i giovani non hanno più nulla di ciò che avevamo conquistato noi.
Già, i giovani… Ai quali la mia generazione era additata come causa dei loro guai, da chi ci aveva sconfitto.
Noi eravamo considerati dei privilegiati perché avevamo conquistato un lavoro più sicuro, perché avevamo una pensione, bassa ma dignitosa.
Noi avevamo lottato contro la distruzione dei diritti sociali e del lavoro, contro la precarizzazione dei lavori e delle vite, ma paradossalmente, proprio coloro che avevano cancellato le nostre conquiste, ora ci accusavano di essere la causa del fatto che nessuna di esse fosse arrivata ai giovani.
Eravamo i baby boomers, la generazione nata col boom delle nascite del dopoguerra, che “viveva alle spalle” di tutte le altre.
Ok, boomers era il termine che si stava diffondendo e che serviva a zittire con disprezzo uno della mia generazione, se provava a dire che il mondo attuale non gli piaceva affatto. “Vai all’inferno vecchietto, accontentati dei tuoi privilegi e della tua vita fortunata”.
Poi è arrivato il morbo che ha aggredito in particolare gli anziani e ucciso tante e tanti di essi. Come per una tremenda legge del contrappasso, noi che abbiamo lottato per la sanità pubblica e contro i tagli e le privatizzazioni, ora siamo vittime della nostra sconfitta e del successo di chi ci ha battuto.
Ora di fronte allo sterminio delle generazioni anziane l’opinione verso di noi sta mutando, e una società che ha colpito i diritti ed il futuro dei giovani dandone la colpa a noi, ora riscopre le parole e le idee della nostra gioventù.
Il conflitto generazionale quasi scompare e tornano le differenze di classe, le ingiustizie sociali, la divisione tra ricchi e poveri, anche quelle tra stati nel mondo. E la solidarietà e l’eguaglianza riconquistano improvvisamente la ribalta, i politici che le hanno sempre ignorate e dileggiate ora si nascondono ipocritamente dietro di esse.
La mia generazione e quelle più vicine pagano con migliaia di morti il ritorno di ciò per cui si sono battute fin dalla gioventù e per cui bisognerà riprendere a lottare. Coloro che ce l’avranno fatta in fondo torneranno giovani e ci auguriamo che essi siano il più possibile.
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Luciano
Bellissimo articolo, da condividere integralmente. Ma si potrebbe conoscere nome e cognome di chi l’ha scritto?
Redazione Contropiano
era saltato il nome dell’Autore – Giorgio Cremaschi – in uno dei tanti crasch di stamattina, “causa” un eccesso di lettori. Ce ne scusiamo insomma con l’Autore e con i lettori…
antonio
condivido tutto essendo parte di quella generazione a cui fai riferimento! Il dopo “pandemia” deve trovare nelle testimonianze nei ricordi e nel conflitto mai sepolto – forse un tantino allentato causa repressioni e galere -. Il “dopo” dovrà essere una nuova pandemia per per lorsignori e per il potere. Adelante hermanos
Federico
Grazie Giorgio,… e per favore tieni duro: abbiamo ancora bisogno di te.
Ciao