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Didattica a distanza: cosa succede davvero?

Cosa sta veramente succedendo nel mondo dell’educazione italiana durante questa forzata interruzione dell’attività scolastica, al di là del polverone propagandistico sollevato dal Ministero? Funziona la cosiddetta didattica a distanza tanto sostenuta dai media per i quali un computer sotto le dita dei ragazzi significa immediatamente innovazione pedagogica?

Per rispondere a tali domande ho tentato di condurre una piccola inchiesta, dai risultati credo relativamente attendibili seppur condotta velocemente. In pratica, ho intervistato una ventina d’insegnanti di diversa residenza geografica e ordine di scuola che hanno conoscenza non solo di quanto accade nel loro istituto ma, per vari motivi, anche di ciò che si verifica in un contesto più ampio.

Il primo dato significativo è che in tutta Italia il tentativo di condurre la didattica a distanza si regge sulla disponibilità umana e deontologica delle e degli insegnanti. Non dimentichiamo che, al di là delle note ministeriali e dei diktat di alcuni dirigenti troppo zelanti, la didattica per via telematica non può essere imposta agli insegnanti.

La sua attuazione è quindi un atto volontario, che molti docenti hanno compiuto per cercare di aiutare i propri allievi in un momento particolarmente difficile. Proprio su quest’ultima intenzione devono essere considerate le iniziative intraprese che nella maggior parte dei casi non sono nate con l’intento di proporre una didattica sostitutiva di quella in classe.

Piuttosto, l’intenzione, almeno nel momento iniziale, è stata quella di evitare agli allievi la sensazione d’isolamento, far percepire la presenza della scuola e degli insegnanti, evocare la coesione di gruppo.

Questo almeno nei primi giorni e in molti casi ancora oggi. In direzione contraria sono andate, purtroppo, la nota ministeriale del 17 marzo e le conseguenti prese di posizione autoritarie di una parte dei dirigenti, che, come vedremo, pretendono di imporre ritmi e iniziative improbabili e poco sensate.

In molti casi, la creatività dimostrata dagli insegnanti è notevole. Un’insegnante elementare di un quartiere popolare di Palermo mi ha riferito delle difficoltà a raggiungere e a comunicare telematicamente con i suoi alunni di sei anni che in genere non dispongono di computer ma solo di smartphone.

Tuttavia, è riuscita a proporre ai bambini della sua classe fiabe e racconti da discutere e su cui riflettere e inoltre ha proposto che ciascun alunno della classe pianti, se può, in un vasetto dei semi che si possono trovare in casa (lenticchie, ceci ecc) per osservarne la crescita e portare a scuola le piantine quando si potrà ritornarvi.

E’ tuttavia evidente che nel settore primario (e anche nella media inferiore) è decisiva la presenza delle famiglie che affiancano e sostengono l’impegno dei ragazzi. Ciò introduce evidentemente una grande discriminazione tra chi ha una famiglia che può e desidera garantire una presenza, anche in termini culturali, e chi non l’ha.

Altre scuole stanno organizzandosi, sulla base dello stimolo dato da un istituto comprensivo biellese, per aprire una web radio da cui i ragazzi possano ascoltarsi e comunicare tra loro. Quest’ultima iniziativa porta ancora una volta il segno del desiderio di attivare comunicazione di gruppo, poiché l’obiettivo della radio non è quello di trasmettere lezioni, bensì di parlare del proprio vissuto di alunni telematici.

E’ interessante ascoltare le testimonianze dei ragazzi e ragazze di scuola media, che con acuto senso critico discutono delle lezioni a distanza, vissute come qualitativamente inferiori a quelle abituali, per la mancanza di collaborazione con i compagni e della cooperazione di gruppo e per la difficoltà di porre facilmente domande agli insegnanti. Non ultimo, i ragazzi lamentano la difficoltà a concentrarsi sulle lezioni telematiche.

Dal punto di vista delle possibilità pratica di fruire della didattica telematica di questi giorni, appare in tutta la sua evidenza il rilievo che hanno le condizioni scoiali e di conseguenza il possesso di attrezzature tecnologiche da parte degli allievi. Infatti, non si rilevano sostanziali differenze in termini generali, per esempio, tra città del nord e del sud.

Piuttosto, le differenze appaiono rilevanti tra quartieri e tipi di scuola: i quartieri popolari di Roma o Milano condividono le stesse problematiche di quelli di Milano o di Napoli, mentre ovunque le difficoltà dell’emergenza sono minori nei quartieri e nelle scuole a frequentazione medio-alta. In pratica, la discriminante è molto più di classe che geografica.

Secondo gli stessi dati del Ministero, circa 1.500.000 studenti non stanno partecipando alla didattica a distanza. Si tratta di una cifra ottimistica, calcolata probabilmente sui soli studenti che sono completamente esclusi da tale iniziativa. Molti altri, infatti, vi partecipano male o in modo saltuario e in condizioni difficili.

Un gran numero di giovani si connette con il solo telefono, la cui connessione ricaricabile è in molti casi limitata e il cui schermo si presta poco a seguire delle lezioni. Inoltre pesa l’angustia e la condivisione forzata degli spazi domestici con genitori, fratelli e sorelle, che non permette adeguata concentrazione. In tali situazioni, appare assolutamente demagogica l’idea della Ministra Azzolina (e di alcune amministrazioni locali, come quella milanese) di “regalare” dei computer agli studenti che non ne dispongono.

Regalare o dare in uso un computer a chi non ha una connessione efficiente e illimitata, non ha gli spazi per seguire i corsi e probabilmente non sa nemmeno usarlo, è inutile. Tra gli studenti più esclusi dalla didattica a distanza, la gran parte degli stranieri, oltre che molti italiani poveri. La difficoltà di connessione, intrecciata alle condizioni sociali, interessa anche gli insegnanti.

Nella città di Milano, sono molti i docenti precari provenienti dal sud che, data la loro situazione instabile, non dispongono di connessioni fisse. Più di un docente mi ha riferito di poter usare solo lo smartphone, da cui evidentemente è improbabile pensare di proporre videolezioni. Peraltro tutti gli insegnanti stanno lavorando con la loro attrezzatura informatica personale che non sempre è all’altezza della situazione.

Sempre in tema di connessioni, va ricordato che nel nostro paese ci sono ancora molte aree, a nord come a sud, che non dispongono di connessioni Adsl o Fibra, ennesimo ostacolo discriminatorio, questa volta legato alla dinamiche città-campagna.

Come è noto, le differenze di classe si esprimono anche attraverso la scelta della scuola superiore. Gli istituti che hanno avuto minori difficoltà nel far partire la didattica telematica sono in maggioranza i licei delle grandi città. Queste scuole sono frequentate da studenti che in genere hanno buone attrezzature informatiche e spazi domestici per poter seguire in tranquillità le lezioni.

Molto meno facile la situazione per gli istituti professionali, dove molti studenti non hanno né buone attrezzature né spazi adeguati. A riprova di questa situazione la testimonianza di un’insegnate milanese che lavora sia in un istituto tecnico che in un professionale. In quest’ultima scuola la didattica a distanza incontra difficoltà molto più importanti che nella prima, sino al punto di non riuscire, in pratica, a partire.

Tuttavia, tale situazione non significa che nei licei (e in parte negli istituti tecnici) tutto vada bene poiché esistono altri problemi. In parecchi di tali istituti, infatti, i dirigenti non tengono in alcun conto l’enorme differenza che esiste tra la didattica in presenza e quella a distanza e hanno imposto di mantenere l’orario scolastico stabilito all’inizio dell’anno anche nella situazione d’emergenza.

In pratica ciò significa per gli studenti dover stare di fronte al computer per cinque o sei ore consecutive, con le difficoltà anche fisiche e il malessere facilmente immaginabili. Tali situazioni hanno già sollevato proteste da parte degli studenti e dei genitori.

Anche in alcune scuole medie si è tentata un’operazione di clonazione dell’orario consueto, ma diminuendo i minuti previsti per ciascuna lezione, con il risultato di una turnazione delle lezioni stordente e non produttiva. Entrambe tali scelte, comunque, sono accomunate dal tentativo di fare didattica come se nulla fosse cambiato quando al contrario tutto è cambiato, sia nelle condizioni strettamente didattiche, sia in quelle umane, familiari e contestuali.

L’atteggiamento che vuole negare la profonda insufficienza della “didattica a distanza” che si sta praticando nelle scuole, il suo carattere improvvisato, le carenze tecniche, sembra sempre più rischiare di coinvolgere una questione fondamentale, quella della valutazione.

Da più parti ormai, anche in coincidenza con la constatazione che la scuola forse riaprirà solo a settembre, emerge l’ossessione della valutazione, feticcio della scuola aziendalizzata. In qualche liceo i dirigenti e gli stessi insegnanti tentano di imporre agli studenti interrogazioni e compiti in classe per via telematica.

Fatta salva la non legalità di tale pratica, più seriamente c’è da chiedersi se, in una situazione tanto delicata, il problema di assegnare dei voti sia davvero importante o se, preso atto del momento, non sia più ragionevole concentrarsi su altre priorità e ammettere d’ufficio tutti gli studenti alla classe successiva.

Purtroppo a questa ansia di valutazione contribuisce non poco l’atteggiamento del Ministero, che non vuole prendere atto della situazione emergenziale, anzi vuol fare intendere che la “didattica a distanza” sia equivalente a quella in classe. Verso una valutazione comunque, anche nelle attuali condizioni che la rendono impossibile, si muove anche l’INDIRE che produce webinar per i docenti sulla valutazione a distanza.

Peraltro, non è casuale che attraverso tali webinar venga proposta una valutazione rivista in funzione della situazione emergenziale che rilancia con forza la valutazione per competenze, vale a dire incentrata sull’”imparare a imparare” e sulle “competenze digitali”.

Fortemente penalizzati dalla didattica on line sono i più fragili di tutti: i disabili. Infatti, tutti gli insegnanti di sostegno lamentano l’enorme difficoltà dei propri alunni a partecipare alle iniziative telematiche ma anche a mantenere un contatto efficace se non attraverso la mediazione dei genitori.

Un discorso specifico merita l’utilizzo delle piattaforme per la didattica a distanza. In Italia non disponiamo di una piattaforma pubblica per l’educazione a distanza. Per questa ragione ogni dirigente ha proposto o imposto, senza alcuna comunicazione tra scuole, una piattaforma da usare nel proprio istituto.

L’elenco sarebbe lungo, ma tali piattaforme, anche se gratuite, sono sempre riconducibili a colossi dell’informatica. I gestori di tali piattaforme stanno acquisendo in questo modo una quantità di dati personali degli insegnanti ma soprattutto di minori, di cui in futuro potranno servirsi per le loro iniziative. Un ennesimo fatto su cui il Ministero si dimostra indifferente se non complice, con i continui appelli alla collaborazione dei privati.

Tutti i dati che ho citato dovrebbero concorrere a una considerazione più prudente e meno entusiastica della didattica telematica che si sta tenendo in questo periodo. Infatti, si tratta di un’attività nata in una situazione assolutamente emergenziale e che si basa sull’impegno volontario degli insegnanti, che sopperisce in gran parte all’insipienza politica e direttiva del Ministero. Una situazione che in alcun modo può essere paragonata alla normalità e che ha senso solo per il breve periodo dell’emergenza sanitaria.

E’ quindi auspicabile che nessuno voglia trarre indicazioni per il futuro da un’esperienza che non può in alcun caso essere proiettata sulla normalità scolastica che è fatta di presenza, di relazioni dirette e di attenzione reciproca. Attenzione che è quella che deve dare l’allievo ma che trova uno specchio necessario in quella dell’insegnate che interviene, consiglia, corregge e che non può essere esercitata dietro allo schermo di un pc.

Gli insegnanti stanno offrendo una prova di responsabilità e disponibilità anche perché organizzare e tenere le iniziative a distanza comporta, a detta di tutti i docenti, un impegno di tempo largamente superiore a quello abituale.

La volontà di offrire ai propri studenti iniziative che li facciano sentire ancora parte della comunità scolastica sembra dimostrare la coscienza di quanto accadrà quando le scuole riapriranno. In quel momento, così come oggi particolarmente esposti sono il personale della sanità e dei servizi essenziali, saranno gli insegnanti a dover reggere il peso dei traumi dell’epidemia: lutti, invalidità, disoccupazione, crisi economica.

La sfida a cui dovrà rispondere la scuola sarà quella di risvegliare nei giovani il gusto e il senso dell’apprendere per costruire una società più solidale, collettiva e non individualista, orientata al bene comune.

Una buona parte degli insegnanti sembra capire o almeno intuire il senso di questa sfida anche con l’impegno di questi giorni. Impegno che non deve essere svilito e ostacolato con richieste di clonazione di orari, di documenti burocratici di “revisione della programmazione” e di richieste di valutazioni impraticabili e offensive.

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1 Commento


  • Franco Cordiale

    GRAZIE A DIO, NE SONO FUORI, ORMAI IN PENSIONE. MI. LIMITO A NOTARE QUESTO. GIA’ L A DIDATTICA IN PRESENZA E’ SEMPRE PIU’ SPESSO DIFFICILE E PERSINO AI LICEI, DIPENDE DA CLASSI E AMBIENTI, GENITORI E PRESIDI… A VOLTE IMPOSSIBILE, CON GENTE CHE NON DISTINGUE L’ AULA DALLA STRADA.! QUELLA A DISTANZA ? NON OSO NEMMENO IMMAGINARLA !

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