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I fatti del Kant segnano un punto di rottura nella finta “pace sociale”

Il significato di ciò che è successo sabato mattina al liceo Immanuel Kant di Roma, zona Torpignattara-Centocelle, per essere compreso, deve essere inserito in un quadro più generale, sia per quanto riguarda la condizione del mondo della scuola, sia quella del governo del paese.

I fatti dovrebbero essere oramai noti, vista la risonanza raggiunta dall’accaduto.

Gli studenti e le studentesse del liceo, dopo un’assemblea nel cortile di prima mattina, decidono di occupare la scuola. Come sempre accade in queste situazioni, si procede alla chiusura del cancello e alla presa del controllo dell’istituto, con i ragazzi che vista la fase pandemica si erano organizzati con termoscanner, mascherine, gel sanificante, e una prima bozza di corsi per i giorni dell’autogestione.

A questo punto, gli agenti del commissariato di zona intervengono per impedire la chiusura del cancello – che sottolineiamo essere una forma di sicurezza per la gestione stessa della scuola –, provocando una dura colluttazione con gli studenti, che tuttavia resistono alla reazione spropositata della polizia, riescono a proteggere la scuola, arrivano a un accordo con la Preside e, con il sostegno degli stessi genitori, dichiarano il Kant occupato.

Un momento di lotta vero, dunque, con due parti della barricata ben distinte, e un significato politico di rottura con lo stato di cose esistenti evidente per due ordini di motivi. Andiamo con ordine.

Il mondo della scuola è sotto fortissima pressione da molti mesi. La pandemia, dichiarata oramai un anno fa dall’Organizzazione mondiale della sanità, ha colto totalmente impreparato il governo e il Ministero, i quali non sono stati in grado di aggiornare la loro linea di intervento a seguito della sosta estiva, né tantomeno di quella natalizia.

Mesi di polemiche su questioni inutili, come i banchi a rotelle, lasciando scivolare via i veri problemi che affliggono la scuola: lo stato degli edifici, la precarietà e l’insufficienza numerica del personale, il disinvestimento pubblico, la concezione dell’istruzione come un accumulo di nozioni in fila, il costo dei libri, l’alternanza scuola-lavoro, l’aziendalizzazione degli istituti con i presidi manager, l’inadeguatezza del sistema dei trasporti (su Roma sicuramente), la regionalizzazione (sinonimo di “balcanizzazione”) delle responsabilità, continuamente rimpallate tra i diversi enti, ecc.

Tutti problemi strutturali fuori dall’agenda delle varie forze politiche che si sono alternate ai governi degli ultimi anni, e che con il Covid-19 si sono palesati in maniera ancora più forte, rendendo non più rinviabile il dibattito per la loro soluzione. O almeno così avrebbe dovuto essere.

Ma non è stato. È qui che interviene l’azione degli studenti e delle studentesse del Kant, e qui si comprende l’intervento spropositato della polizia. In un posto qualsiasi, senza che nessuno lo abbia progettato, si rompe il velo della finta “pace sociale” imposta dalla pandemia. E’ il segno di una condizione generale, sotto forma di un episodio casuale.

Se l’azione di buona parte del mondo della scuola fino a oggi è rimasta invischiata nel dibattito “Dad sì/Dad no”, la rottura con la calma apparente in cui procedevano le scuole della capitale segna il rifiuto della logica del compromesso, della compatibilità con l’azione di governo più volte sostenuta dai maggiori sindacati confederali e dalle organizzazioni a questi vicine.

Che la Dad sia un fallimento lo ha dovuto ammettere anche la ministra Lucia Azzolina, ma allora che si fa?

In alcuni contesti scolastici, che variano in base ai mezzi dell’istituto e al sistema dei trasporti locale, andare in classe in presenza sarebbe anche possibile, ma la “scuola pre-pandemia” aveva già da tempo fallito i propri obiettivi, esaurendo il suo ruolo educatore e di ascensore sociale.

In altri contesti invece con la lezione in presenza si mette a repentaglio la salute dello studente e dei suoi congiunti, aggiungendo così la negazione di questo diritto a quello allo studio, martoriato da anni di riforme neoliberiste.

La contraddizione allora, al livello del dibattito pubblico odierno, è insolubile. E in questo spazio si infilano gli studenti del Kant, che rifiutando la logica del “meno peggio”, scrivono nell’intervista che vi abbiamo proposto ieri: “dopo una settimana di sciopero e di protesta abbiamo deciso di occupare e di portare la lotta su un livello più alto, perché la scuola che vogliamo è un luogo di emancipazione e di crescita collettiva”.

Ecco i due ordini di motivi della rottura politica. Uno, perché vada “tutto bene”, non si deve tornare alla normalità, perché la normalità era il problema, e allora non si può che essere fuori e contro lo stallo che vive il governo attuale, peraltro in questi giorni inchiodato nella crisi, soprattutto, di legittimità nei confronti della popolazione.

Due, la polizia qui interviene duramente perché l’opzione politica della lotta vera è realmente alternativa, dunque “oggettivamente sovversiva”, al di là dei numeri e della soggettività in campo, in quanto rappresentativa di una condizione diffusa su tutto il territorio nazionale e in quasi tutte le figure sociali di classe; dunque da reprimere prima che ne “nascano altre cento”.

In altre parole, l’occupazione del Kant squarcia il velo che nascondeva l’empasse con cui il governo e le parti sociali concertative stavano trattando il tema dell’istruzione, alle spalle e sulla testa di lavoratori e studenti.

In gioco qui non c’è la tenuta del governo, in fondo poco distinguibile da quelli che lo hanno preceduto e probabilmente da quelli che lo seguiranno, ma c’è il futuro delle nuove generazioni, e quindi del paese intero.

Per questo, gli studenti e le studentesse che si sono messi in gioco meritano tutto il nostro sostegno.

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