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Il federalismo sanitario è “una cagata pazzesca”

Niente come una pandemia dimostra la necessità di un unico governo mondiale. E niente come una pandemia dimostra che l’interesse pubblico generale – la salute degli esseri umani – DEVE prevalere sugli interessi privati, nazionali, individuali. Il socialismo, detto con una nobile ed antica parola della modernità

Semplicemente perché da una pandemia o se ne esce tutti o non se esce mai. Neanche tirando su muri altissimi.

Ma non appena si scende dal cielo della necessità oggettiva al fango delle dispute quotidiane, si tocca con mano quanto gli attuali assetti di potere e istituzionali siano assolutamente inadeguati a combattere questa battaglia. Gli assetti, ripetiamo. Anche a prescindere – nei limiti del possibile – dalla qualità indecente della più indecente classe politica che abbia calcato le scene degli ultimi 70 anni.

La quale, però, occupa tutto lo spazio dell’informazione mainstream, nascondendo buona parte delle inefficienze “strutturali” con l’esibizione della propria inettitudine.

Prendiamo il caso quotidiano del “governatore” lumbard, quel Fontana che è arrivato a dire che in Lombardia, dopo la circolare del Viminale, “non cambierà nulla di quello che c’è nella mia ordinanza”, come fosse il presidente di un diverso Stato. Negli Usa, per una cosa del genere, si sarebbe presentato l’Fbi dopo dieci minuti, scuotendo le manette.

E’ solo uno dei tanti episodi quotidiani che però indicano un fatto preciso: i governatori della Lega, insieme a Salvini e Confindustria, hanno pesantemente condizionato le scelte del governo centrale e “piegato” anche buona parte dei suggerimento del “comitato tecnico-scientifico” che avrebbe dovuto costituire il centro delle decisioni valide su tutto il territorio nazionale.

Il 25 febbraio, in pieno sviluppo iniziale dell’epidemia, quello stesso Fontana lì “tranquillizzava” il consiglio regionale e quindi la popolazione regionale con questo discorsetto in stile “trump della bassa”:

Erano i giorni in cui tutti i leghisti pretendevano di “tenere tutto aperto”, di “riaprire quello è stato chiuso” (quasi niente…). E il governo centrale andava loro dietro. E i sindaci piddini di regioni leghiste, idem.

Poi l’inversione di marcia. Finta, perché dovevano star chiusi solo i cittadini fuori dell’orario di lavoro, arrivando a criminalizzare i runner solitari e non dire una parola sui fiumi di lavoratori che, all’orario canonico, entrano ed escono da fabbriche e uffici per affollare bus, metro, treni pendolari…

Ora, al massimo, ci sono sindaci piddini che protestano contro i governatori leghisti e viceversa. A dimostrazione che in nessuno dei due schieramenti ufficiali passa neanche per l’anticamera del cervello che hanno un ruolo operativo da svolgere, non solo il compito di procacciare voti per le prossime – prossime? ma quando mai.. – elezioni.

Questi personaggi, comunque, saranno anche squallidi, ma non cretini. Hanno capito perfettamente che la pandemia dimostra che non ha senso una “sanità regionalizzata”. Sentono benissimo che il tempo del “federalismo” sta finendo, travolto dall’impossibilità di affrontare un’epidemia mondiale con la logica ristretta di cui sono stati portatori.

In qualche modo Salvini li aveva anticipati, trasformando la Lega da “campione del Nord” a formazione nazionalista. Ma la logica era rimasta la stessa, ristretta, anche se su un territorio un poco più ampio…

I grumi di interessi sporchissimi cresciuti dentro e intorno la “spesa sanitaria sovrana” delle Regioni – quella lumbard è stata disegnata da quel Formigoni che c’è andato anche in galera, per quante porcate aveva combinato – hanno il terrore di venir ricondotti dentro uno schema da “servizio sanitario nazionale” che romperebbe, almeno temporaneamente, i circuiti esclusivi pubblico-privato. E che si sono dimostrati inconsistenti di fronte al galoppare del coronavirus, nonostante un personale medico e infermieristico pronto a qualsiasi sacrificio (dopo anni passati a subire insulti da Stato e massa media).

E dire che stavano quasi per vincere la guerra…

L’”autonomia differenziata” era lì, ad un passo, stava per far felici i Fontana, Zaia, Cirio, Tori, Bonaccini, ecc. Nel campo della sanità questo avrebbe significato avere il potere di decidere su: disegno del sistema e dei servizi, fabbisogni di personale, formazione specialistica, equivalenza terapeutica dei medicinali, fondi integrativi per il finanziamento, programmazione degli investimenti edilizi e tecnologici.

Il sogno di Paperon de’ Paperoni, con gli euro al posto delle pupille…

Ma anche se quella classe politica fosse migliore, anche se la privatizzazione fosse stata effettivamente più efficiente e sicuramente meno avida (siamo arrivati, in Lombardia, all’orrore della clinica Santa Rita di Milano, con il chirurgo Pier Paolo Brega Massone condannato all’ergastolo per omicidio volontario: toglieva polmoni ai ricoverati per “tenere la media” e fare la quantità di soldi che aveva in testa), in ogni caso quel modello era ed è sbagliato.

Non solo per motivi “morali” (il diritto di tutti i cittadini ad essere curati al meglio, a prescindere dalla regione di residenza, mentre, se qualcuno vuole ridisegnarsi i glutei, se li paga), e neanche solo per motivi costituzionali. E’ che proprio non funziona, se non per ridisegnare chiappe.

C’è bisogno di una ricerca centralizzata per scoprire prima farmaci utili e vaccini, le quali attività richiedono la centralizzazione dei dati (addirittura a livello mondiale), la circolazione immediata delle verifiche sperimentali, la validazione di pratiche e protocolli, ecc.

Sapere collettivo messo in comune, non sfruttato privatisticamente per registrare un brevetto e guadagnare spropositi con la commercializzazione.

Ma, in attesa e lottando per questo tempo migliore, sarebbe già un enorme passo avanti costruire ex novo un sistema sanitario pubblico tendenzialmente dello stesso livello sul territorio nazionale, dotato della quantità adeguata di medici e infermieri, con livelli di formazione mediamente alti (mettendo fine alle pratiche di “trasmissione familiare delle cattedre universitarie; al Nord soprattutto per motivi di profitto, al Sud per ragioni anche elettorali); abolire il “numero chiuso” per l’accesso alle facoltà di Medicina (o quanto meno allargando fortemente quel numero per farlo corrispondere alle necessità del sistema e non a quelle del bilancio, tagliato ogni anno un po’ di più).

Banalità, per niente rivoluzionarie, ce ne rendiamo conto. Ma mortifere per i gruppuscoli di portaborse elevati a cariche istituzionali che popolano il sottobosco dell’attuale politichetta italica.

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