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Torino. Lettera da un’insegnante: la scuola ai tempi del coronavirus

Riceviamo e pubblichiamo molto volentieri la riflessione di una insegnante alle prese con la scuola ai tempi del Coronavirus

Nella vita non ho sempre fatto l’insegnante.

La mia prima relazione didattica è stata con una maestra che ha lavorato principalmente sul cosiddetto “gruppo classe”, negli anni ’80, mentre intorno a noi tutto andava nella direzione opposta: essere individualisti, pensare a sé, scavalcare gli altri.

Lei insisteva per farci lavorare in comunità, creando lo spazio per la libera espressione nel rispetto di tutti.

Mai l’ho sentita sminuire qualcuno elogiando qualcun altro, mai ha parlato di voti, scriveva ad ognuno note di commento per ogni piccolo compito svolto, per ogni disegno, ogni esercizio. Ciascuno di noi contribuiva alla vita collettiva, sei giorni su sette, quattro ore al giorno. Quelli più veloci con quelli più lenti, quelli lenti tra loro, quelli veloci tra loro, quelli che si sceglievano in autonomia e quelli che accoppiava lei.

Sperimentazione e apertura mentale, sempre.

Si pensa sia facile avere davanti a sé una media di 25 persone dagli 11 ai 13 anni e tutti concordano nel definirlo un lavoro leggero. Io di leggero non ci ho mai visto nulla.

Provo a somigliare all’idea di insegnante che vorrei essere, pensando alla mia maestra, ma sono certa di non riuscirci quasi mai, qualche volta, forse. Non perché non mi sforzi ma perché ogni giorno la relazione umana 1 a 25 è diversa, fatta di cose che sono accadute la sera prima, di separazioni tra genitori, di famiglie disgregate, di situazioni economiche pesanti, litigi, insicurezze, fragilità, paure

Spesso mi domando quale sia il mio ruolo. Certamente insegnare, socializzare un sapere, socializzarlo in maniera attiva, provare a lasciare aperto il canale dei “non ho capito”, “non mi interessa”, “io invece penso che”, “mi aiuti”. Ma c’è dell’altro, è inevitabile.

Come si insegna loro a vivere insieme? Che modello si propone? Quali esempi si portano?

Quando è arrivato il Coronavirus e le scuole hanno chiuso mi sono chiesta, cosa farà la scuola adesso?

Non ho pensato nemmeno per un attimo agli strumenti ma solo alla risposta che avremmo dato.

Io che ho sempre attribuito al corpo docente una funzione di guida, un faro che nella tempesta indicasse un presidio, un micromondo che producesse pensiero alternativo, mi sono ritrovata in una sorta di realtà distopica. Da una parte la tv e i giornali mi informavano sul numero quotidiano di contagi e di morti e andava configurandosi il più inquietante incubo collettivo mai vissuto prima; dall’altra nella mia scuola si parlava di finire il programma e mettere i voti.

Qualcosa non va, no, non è possibile. Certo, le indicazioni ministeriali erano tutt’altro che chiare, le decisioni spettavano alle varie dirigenze scolastiche, in virtù di quella autonomia che qualcuno pensava fosse la panacea di tutti i mali. Non si poteva certo immaginare che un impercettibile parassita potesse compromettere un’intera impalcatura sociale in meno di un mese. Nessuno era preparato alle quarantene, ai bollettini di guerra, alle discussioni tra virologi, alle mascherine.

Se la scuola è lo specchio della società, allora anche la scuola si trovava disorientata, c’era solo da

accettarlo. Anzi, soprattutto la scuola avrebbe avuto bisogno di tempo per elaborare, un tempo lento e lungo, come quello di un isolamento.

Invece cosa pensa di fare, la scuola? Si comporta come un’azienda. Ci mette in smart working senza verificare se tutti possano lavorare a distanza; utilizza piattaforme private alle quali fa accedere milioni di docenti e studenti in barba ai corsi di formazione sulla privacy; riformula un’offerta formativa, magari con un orario scolastico che ricalchi quello precedente la pandemia. Ci viene chiesto (quando va bene) di andare avanti, fare didattica, come se nulla fosse. La scuola si affanna a costruire il grande inganno del si può fare, this is Capitalism, baby. Non importa se nel contratto nazionale non sia menzionato il telelavoro, se nulla di quello che ci è stato chiesto di fare è normato; c’è un’emergenza, bisogna rimboccarsi le maniche e se fai una domanda, attenzione, è evidente che ne vuoi approfittare per non lavorare.

Il vero volto della didattica a distanza è che io lavoro il quadruplo di quanto non facessi prima, lo faccio male perché non ho una linea guida che sia una, è tutto improvvisato, alla quarta videolezione del giorno sono esausta e mi domando il senso di quello che sto facendo. Chiedo tutte le volte alle classi se a loro piace e quasi tutte rispondono che non è come la scuola, a scuola è più bello, mi dicono che capisconomeno, che non riescono a stare dietro a tutto e che l’unica cosa bella è sentirci. Nel frattempo Microsoft mi traccia, ascolta quello che diciamo, si appropria dei dati di persone minorenni quando non direttamente della loro immagine e io, stando al programma, ad un certo punto dovrei insegnare loro i rischi dell’iperconnessione e dell’appropriazione di dati personali. Con che faccia lo farò? Con quale credibilità?

I primi giorni ho perso il tempo a litigare, ho imbastito discussioni perché mi sembrava il posto giusto: se non è il corpo dei docenti a fermarsi e capire cosa accade, chi lo fa?

Non riuscivo a capacitarmi di come le cose potessero caderci sulla testa senza che noi alzassimo nemmeno gli occhi a guardare di che razza di strano animale si trattasse.

Noi che chiediamo alle classi senso critico e responsabilità. Tuttavia non è così sconvolgente ciò che accade perché il parassita è riuscito in un’unica cosa buona: aver tolto il tappo a questa tanica di contraddizioni e ingiustizie accumulate negli anni.

La scuola di solito cade a pezzi, materialmente e moralmente, le strutture sono fatiscenti e quando piove forte, l’acqua te la trovi a secchiate nell’androne; non c’è il sapone nei bagni; la rete, se qualche fondazione privata non ti regala la fibra in cambio di corsi pomeridiani, arriva grazie a un filo provvisorio, un impianto precario e artigianale; i computer si ottengono con i punti della Coop e dell’Esselunga; c’è una LIM ogni tre classi; le aule sono delle galere dove stipare 25-27 persone; i laboratori non esistono se non per grazia divina.

La scuola di solito è fatta in buona parte da docenti precari, con contratti al 30 Giugno e poi chissà, gente che dovrebbe insegnare arte ed è costretta a prendere un sostegno, pur di lavorare.

Si potrebbe assumere a tempo indeterminato chi insegna da anni con contratti a termine, fa esami, mette voti, firma e redige verbali, partecipa agli scrutini, ma invece non si fa.

La scuola di solito è un posto in cui lo spazio per la didattica è strozzato da mille inutili scadenze burocratiche, PON, corsi promossi da Tizio e doposcuola venduti da Caio, educatori che afferiscono a cooperative pagati quattro lire e personale ATA ridotto allo stremo.

Se la scuola è lo specchio della società non si fa fatica a credere che nessuno finora si era sognato di stanziare 85 mln di euro, fosse solo per la famosa carta igienica che è pur sempre un bene di prima necessità, nessuno ci aveva inviato lettere per ringraziarci di fare un lavoro sottopagato, precario, soggetto a burn-out, deriso e dequalificato costantemente.

Eppure i diktat sono: “Bisogna far vedere che la scuola c’è” e “Dobbiamo dare una sensazione di normalità”. Sulla prima non si può che essere d’accordo ma viene da chiedersi, in che modo la scuola vuole esserci? Fingendosi all’altezza della situazione quando non lo è? Portando avanti la bandiera di istituzione granitica e solida con la maggior parte dei docenti assunti con contratti precari? Accettando milioni di euro tirati fuori dal cappello per la didattica digitale, anziché richiedere con forza di dirottarli sulle milioni di urgenze con le quali ci confrontiamo quotidianamente oppure sulla sanità stessa, vista la situazione?

A me sembra che anni di aziendalizzazione di un’istituzione che è principalmente comunità, o almeno dovrebbe esserlo, abbia forgiato i docenti come se fossero soldati mandati in guerra, quando dovrebbero essere partigiani in una battaglia comune.

E cosa significa, esattamente, “dare una sensazione di normalità”?

Forse devo dire ai miei alunni che hanno le madri infermiere, i genitori separati e sono soli a casa davanti ad un pc, che non c’è da preoccuparsi? Devo sorridere inventando storie oppure devo trovare le parole giuste per spiegare loro che, forse, non tutto andrà bene?

La verità è che avremmo bisogno di una scuola che fosse presente con l’umiltà di chi vive questo dramma e non sempre ha le risposte giuste, che ammettesse che viviamo un’esperienza umana inedita e ci stiamo scoprendo vulnerabili; una scuola che si sforzasse di creare una rete umana e solidale, evitando che questa sfortunata generazione post coronavirus cresca con la paura degli altri o con l’idea che sia sufficiente connettersi ad una voce dall’altra parte dello schermo per non sentirsi soli. La scuola è lo specchio della società non solo quando la subisce ma quando si sforza di costruirla o ricostruirla, quando si incordona a proteggerla, quando prova ad ascoltarla, quando ne difende la parte più debole, povera e fragile.

Serve una scuola che metta in piedi comunità e contenuti, non che diventi promoter di strumenti o serva di qualche multinazionale o, peggio ancora, cavia sociale.

Serve una scuola resistente e viva.

Un giorno qualcuno potrebbe far diventare la didattica a distanza la normalità, cosa faremo noi insegnanti? Accetteremo di buon grado senza battere ciglio? Oppure proveremo a dire che la scuola è un’altra cosa e che non ci limiteremo a difenderla così com’è ma che chiederemo che sia migliore? Ci accontenteremo ancora delle briciole o sapremo sfruttare questo triste momento per ripensare tutto e ripensarci, finalmente, non come parte dell’ingranaggio ma come motore unico?

Alzeremo la testa, insieme alle famiglie, alle ragazze e ai ragazzi per rivendicare qualcosa di più intelligente delle competenze, dei voti, delle Invalsi e della maledetta didattica a distanza?

O faremo vincere il parassita vero, quello che approfitta di una tragedia simile per avere una scuola di burattini e mediocri burattinai al comando?

Guardiamoci tutti dentro, con onestà, e pensiamoci.

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