Secondo il rapporto Censis dello scorso novembre «Respect: stop Violence Against Women», in Italia vivono 31 milioni di donne, il 51,3% della popolazione.
Le donne che lavorano sono 9 milioni e 768 mila, e rappresentano solo il 42,1% del totale degli occupati, nonostante abbiano più titoli di studio e voti finali superiori a quelli degli uomini.
Anche il tasso di disoccupazione è superiore a quello degli uomini (11,8% contro 9,7%). Quasi una donna occupata su tre (il 32,4%), per un totale di oltre tre milioni, svolge un lavoro part-time, quota che per gli uomini è solo dell’8,5%. Il peso della famiglia cade interamente sulle spalle delle donne.
All’aumentare dei figli, si legge nel rapporto Censis, diminuisco le donne che hanno un lavoro. Anche quando il part-time è frutto di una scelta, nel 47,7% dei casi, la scelta è condizionata dalla necessità di prendersi cura dei figli o di persone anziane, spesso di entrambi, mentre solo il 24,4% delle donne giustifica la scelta con l’esigenza di avere tempo libero per sé (per gli uomini è l’esatto contrario).
Un’esigua minoranza di uomini si dedica ai lavori domestici e alla cura. L’educazione e la cura dei figli sono esercitati quotidianamente dal 97% delle donne. Mentre l’81% delle donne cucina e si accolla i lavori domestici. Questo carico aggiuntivo costringe circa un milione e mezzo di donne lavoratrici a optare per il part-time.
Le forme di lavoro da remoto attivate durante l’emergenza Covid-19, note come Lavoro Agile, secondo Fiorella Crespi, Direttrice dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano (osservatori.net), non sono da considerarsi Smart Working a tutti gli effetti. In primo luogo, perché, per via della segregazione, lo spazio di lavoro è confinato dentro le mura domestiche.
La caratteristica dello Smart Working, dice Crespi, è l’autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, autonomia alla quale deve corrispondere una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Smart Working non vuol dire semplicemente «Lavorare da casa.» Nello Smart Working, dice, l’accento è posto sugli obiettivi e sui risultati, più che sugli orari e i luoghi della prestazione lavorativa, con un approccio quasi «imprenditoriale».
Non si tratta di una novità assoluta nel management aziendale o nella scienza delle organizzazioni complesse. Già negli anni Ottanta, in Italia – ma all’estero decenni prima – si parlava di Qualità Totale, riferendosi a un modello di organizzazione aziendale in cui i lavoratori erano stimolati a ritenersi coinvolti direttamente nei risultati del processo produttivo. Erano stimolati, cioè, a sentirsi padroni del processo, e a operare, come dice Crespi, da «imprenditori». Una quadro esaustivo di questa tecnica lo ha dato Lars von Trier nel film del 2006 «Il grande capo».
Nel film, il capo effettivo si mischia ai dipendenti. Finge di essere uno di loro. Li stimola a lavorare e a scaricare le tensioni su un fantomatico grande capo, realizzando il miracolo di far assumere ai dipendenti la responsabilità e il peso delle scelte e della direzione.
In questa fase di emergenza, il Lavoro Agile interessa una platea potenziale di 8 milioni di lavatori. Il Ministero della Funzione Pubblica stima una sua diffusione dell’80% nell’amministrazione centrale e del 60% nelle Regioni.
Tuttavia, dice Crespi, non si tratta di un vero e proprio Smart Working, anche se ne eredita una caratteristica importante, ovvero l’assunzione da parte del lavoratore della responsabilità dell’organizzazione del lavoro. Non è nemmeno un telelavoro, dice, in quanto il telelavoro è regolato da un contratto che ne norma tutti gli aspetti, per esempio il diritto alla disconnessione.
Pertanto, nel cosiddetto Lavoro Agile, o lavoro da remoto, si sommano tre caratteristiche che lo rendono notevolmente accattivante (accattivante per i datori di lavoro), rispetto ad altre forme, per così dire, più regolari.
È un lavoro flessibile, viene svolto senza orari, magari da donne, mentre cambiano un pannolino o un pannolone, mentre imboccano un neonato e un genitore con l’Alzheimer, mentre lavano i piatti, o fanno la spesa.
È un lavoro creativo, in quanto la lavoratrice deve industriarsi, per esempio, per trasformare il telefonino personale in un router wifi, deve attivarsi per installare e customizzare applicativi o settare e rendere operative reti di collegamento con i colleghi, deve attrezzarsi per avviare webinar nei quali improvvisarsi tutttologa su dispositivi software e hardware, condividendo hack sviluppati in proprio. Il tutto, mentre si ripetono le tabelline o si coniugano i verbi ausiliari con i figli, da sola, perché il marito «lavora» fuori per portare la pagnotta a casa.
Insomma, il Lavoro Agile, se incanalato nelle forme regressive di sfruttamento della forza-lavoro, soprattutto femminile, si sommerà, o sostituirà, le forme più degradate di lavoro, quelle che richiedono un impegno frammentato, come avviene per le lavoratrici delle pulizie, per le cassiere dei supermercati, le bariste, le cameriere, le quali fanno i salti mortali per incastrare i frammenti di lavoro retribuito, e retribuito malissimo, con i lavori domestici e i lavori di cura parentale.
In questa fase di emergenze, la quale prevede la chiusura a singhiozzo delle scuole, e per un periodo molto lungo, si renderà necessario un esercito di donne flessibili e creative, Smart, e magari pagate anche poco, che, mentre i mariti «lavorano», sappiano fare miracoli ai fornelli e districarsi tra quoto e quoziente, e sappiano mandare la lavatrice e rispondere a un cliente, e sappiano aiutare un collega che non sa come si recupera una password e ricordare al nonno di prendere la cardioaspirina.
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