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Oggi sento questo Primo Maggio particolarmente forte dentro di me, come è stato per il 25 aprile.

Il fatto di non potere scendere in piazza come sempre, ricostruisce, rafforza, estende il senso ed il valore di questa giornata, la manifestazione laica più grande e importante del mondo. Oggi che siamo a casa in miliardi di persone, oggi che sentiamo i colpi del virus unirsi in tanti paesi a quelli dell’ingiustizia sociale e dello sfruttamento, oggi sentiamo più che mai il senso profondo dell’appuntamento mondiale di lotta e unità del mondo del lavoro.

È dalla fine del 1800 che ovunque si scende in piazza il 1 maggio e da allora la storia umana si è misurata anche con il senso che assumeva quella giornata. In queste settimane di pandemia la società ha improvvisamente riscoperto il valore del lavoro, del lavoro vero.

Un infermiere e un medico hanno contato infinitamente di più di un banchiere, un’addetta alle pulizie più di un esperto di Borsa, una commessa di supermercato più di un esperto di marketing.

E gli operai, gli addetti alla produzione, si sono rivelati improvvisamente preziosi per le imprese, quelle stesse imprese che prima li volevano rendere superflui con la delocalizzazione e che ora lasciavano a casa i manager, ma non chi agiva sulle macchine e alla catena di montaggio. Operai così preziosi che i padroni hanno fatto carte false per farli lavorare infrangendo blocchi e chiusure.

Durante i momenti più duri della pandemia, i valori costruiti in trent’anni di dominio liberista sulle vite si sono improvvisamente ribaltatati, quasi per forza naturale. E il lavoro, quello vero, improvvisamente è apparso infinitamente più importante del valore della finanza e degli affari.

Ora il sistema sta riprendendo il suo potere e con le minacce ed i ricatti economici prova a riportare il lavoro alla sua condizione di sottomissione e mercificazione, sotto il dominio del capitale. Ma abbiamo visto e sentito la potenza e la forza del lavoro.

Questo è il senso vero del Primo Maggio, una festa della forza e del futuro. Come alle sue origini, quando le lavoratrici ed i lavoratori si riconoscevano come le basi di una società che avrebbe potuto fare a meno degli sfruttatori, ma non di chi ne subiva il potere. Il lavoro è tutto il capitale niente, questo vuol dire il Primo Maggio, e questo suo significato riemerge appena i destini della società giungano a bivi cruciali.

Alla fine dell’800 l’orario di lavoro era di dieci ore al giorno per sei giorni, ma la ricorrenza del Primo Maggio rivendicò le otto ore per i lavoratori di tutto il mondo. Utopia? No, futuro.

Oggi abbiamo di nuovo bisogno di riconoscere la forza di chi lavora e di costruire il futuro. Ridurre l’orario, garantire sicurezza e dignità a tutte e tutti, finirla con il dominio degli affari e dei soldi sulla vita delle persone e sulla natura; queste non sono utopie, ma il futuro necessario, come allora le otto ore.

Cancellare il Jobsact deve essere ben più facile che sconfiggere il Covid.

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